Negli occhi di Lewis Hamilton si vede il futuro. Sono gli occhi scuri di un campione che dimentica numeri e record, che confonde i momenti più belli della sua carriera, che mescola date e successi, ma che ricorda l’intensità di tutto ciò che questo sport, questo mondo, gli ha dato. Sono gli occhi di una nostalgia mite, confusa, che vede la gloria di un tempo e lì vuole tornare, senza però farsi mangiare da ciò che il suo passato è stato per lui. Negli occhi di Lewis Hamilton vive la fame, la voglia di rialzarsi sempre, di continuare una storia che non si è fermata al 2021 e a quell’anno così complicato con cui far pace. Rialzarsi ancora, rialzarsi sempre, è tutto ciò che Hamilton ha sempre saputo fare.
Se lo è scritto a caratteri cubitali sulla schiena molti anni fa, Still I Rise, in un tempo presente che non permette passato, che non accetta eccezioni. Ed è lì, su quella schiena che porta addosso una frase diventata simbolo e metafora, che Lewis Hamilton si riconoscerà sempre. Una schiena che è rimasta dritta nei giorni più duri, che non si è piegata davanti ai numeri degli insuccessi, che corrodono veloci in un mondo che va sempre al massimo, che cambia divinità e idoli, che dimentica in fretta. Sono stati 945 i giorni di digiuno, dalla fine di quel 2021 che andava spazzato via, chiuso in un cassetto che non poteva rappresentare la fine della carriera del più grande di tutti.
E allora negli occhi dell'inglese ha continuato a brillare la fiamma del futuro, la consapevolezza di avere ancora qualcosa da dire, da dimostrare, da raccontare al bambino che era, a quello che per questo sogno ha dato tutto e anche di più. Sono gli occhi di tutti i Lewis che Hamilton è stato quelli che non nascondono le lacrime a Silverstone nel giorno della sua nona vittoria nel tempio di casa, arrivata in una domenica di mille imprevisti, sotto la pioggia e il sole, tra gli attacchi e le difese di tutto e tutti. Ma Hamilton ha retto, come se rialzarsi lì, tra le strade di casa, fosse l'unica storia possibile da raccontare. E allora lui che "non piange dopo le vittorie", si commuove come il bambino che è stato, cercando l'abbraccio di mamma e papà, usando la bandiera inglese che stringe sulla spalle con orgoglio per asciugarsi gli occhi, per proteggersi da un'emozione troppo grande con cui fare i conti da solo.
Piange perché Lewis Hamilton, sul podio di Silverstone, solo non è. Perché rialzarsi da molto tempo non è più una questione solo personale. Non lo era quando farlo voleva dire trovare gli sponsor per poter sognare la Formula 1, sentendosi quello fuori tempo, posto, diverso. Non lo era al debutto e poi al successo con McLaren, o dopo, quando per la stampa inglese si era trasformato in un "mercenario" alla ricerca di soldi in Mercedes, destinato all'insuccesso. Non lo è stato negli anni delle vittorie più belle, dei titoli mondiali, e poi dopo, alla fine di un ciclo, tra le domande sul ritiro e le scelte sul futuro.
Ci sono tutti i Lewis Hamilton che quel ragazzo inglese è stato sul gradino più alto del podio della sua Silverstone, e con loro ci sono anche tutti quelli che, quel campione assoluto, lo hanno visto diventare un uomo diverso a ogni fase della sua storia. Sembra esserci l'Inghilterra intera, a gridare il suo nome, a invocare il Re, a piangere con lui mentre "God Save The King" suona forte nelle orecchie e si fa sentire sotto la pelle, fino a dentro le ossa. Sul podio c'è Bono, il suo ingegnere di pista, l'uomo che più di tutti Lewis vuole vicino: "I love you Bono" gli dice dopo la vittoria, ed è un amore che ha una forma tonda, piena, grande come l'abbraccio che si danno sul podio e che non sembra finire mai.
È la grandezza delle cose più vere, dei giorni che anche mentre ci sei dentro sai già che saranno quelli lì, quelli che in qualche modo si ricorderanno per sempre. Ed è lì che gli occhi sono pieni, che gli abbracci sono rotondi, che non c'è tempo e spazio per il passato ma solo per il presente e per il futuro. "Ancora mi rialzo", c'è scritto sulla schiena dritta di Lewis Hamilton. Ancora una volta, prima di cambiare tutto, di affrontare la sfida più grande della sua carriera con il passaggio in Ferrari, di rimettersi in gioco quando un altro non avrebbe la forza, e il coraggio, di farlo. Rialzarsi, perché questo è il destino di chi non ha mai saputo fare altro. E piangere perché la sofferenza di oltre due anni alla ricerca della propria pace pesano come non hanno mai fatto prima. Ma il risultato è aria pura nei polmoni che si respira lì, sul gradino più alto del podio. Dove dove 945 giorni di assenza non esistono più, perché i campioni già pensano al futuro.