“Vedi Migno, voi siete curiosi. Funzionate perché approfondite, le vostre puntate non sono un mordi e fuggi come ormai siamo abituati a vedere oggi” – parola di Aldo Drudi, che ha ragione a tutti gli effetti. Il marchio di fabbrica degli episodi di Mig Babol è ormai chiaro, delineato: durano un’ottantina di minuti ma scorrono via rapidi, lisci come l’olio e gradevoli come un bicchiere di acqua frizzante dopo un pranzo sostanzioso.
Così accade anche con il designer della velocità che, sul divano di Migno e Carloni, all’interno dello studio che si affaccia sul Wolrd Circuit Marco Simoncelli per cui Aldo ha disegnato e colorato le vie di fuga (e vinto un Compasso d'Oro), parte dalle origini e dilaga meravigliosamente nella filosofia del mestiere: “Ciò che mi ha reso famoso sono i caschi dei piloti, perché indossati dai più forti piloti del Motomondiale. Quelli sono il mio manifesto pubblicitario, portano la mia firma. Anche se sono forse solo il 20-30% della mia economia, perché noi facciamo anche tante altre cose nell’ufficio che abbiamo a Riccione. Coloriamo barche, treni, aerei, tutto ciò che va veloce. Succede che nella storia degli uomini, da sempre, c’è un rapporto con il colore che viene fuori nei momenti più importanti della vita. Gli indigeni quando andavano a caccia e dovevano affrontare grandi animali si dipingevano. I grandi combattenti, i rivoluzionari, quando entravano in azione – ancor se il pericolo era una componente – adottavano sempre un colore distintivo. Perché così esorcizzi la paura, incuti timore nell’avversario. Nel regno animale succede sempre, provate a pensare alla coda nel pavone”.
Migno allora ne approfitta per imbeccare Aldo sull’ultimo casco speciale – pavoneggiante - sfoggiato da Franco Morbidelli a Misano: “Franco finalmente si sta sentendo meglio, ma aveva bisogno di trasmettere al mondo ‘io ci sono’, e ha fatto la ruota come il pavone. Io gli invidio il suo modo di parlare, molto rilassato. Va coi giri bassi, ma fa strada”. Segue una breve riflessione sull’abuso che alcuni piloti fanno dei caschi speciali, oltre al ricordo di una curiosa giornata che vide protagonisti Drudi, Migno, Morbidelli e Mattia Casadei al museo degli Uffizi di Firenze, ormai qualche anno fa: “Negli ultimi anni c’è un’inflazione, perché adesso qualsiasi cosa succede viene fatto casco speciale, a volte senza particolari motivi. È una cosa che noi sconsigliamo ai nostri piloti, proprio perché bisogna avere rispetto dell’oggetto, di quello che può trasmettere. Valentino Rossi è stato un fenomeno da quel punto di vista, io sono stato felicissimo della nostra storia, compresa quella dei caschi speciale che neanche ricordo come sia iniziata, perché abbiamo raccontato con i miei disegni e con le sue idee un sacco di cose. L’influenza della storia dell’arte italiana nel mio lavoro? Mi inviti a nozze, perché mi ricordi che invitai te (Aldo si rivolge a Migno, ndr), Franco e Mattia Casadei ad una visita al museo degli Uffizi di Firenze. Abbiamo fatto una due giorni lì, siamo andati con una professoressa di storia dell’arte – a cui chiesi di sintetizzare perché, le dissi, ‘questi vanno a 200 all’ora’ – che raccontò la storia della riproduzione del David di Michelangelo davanti a Palazzo Vecchio. Io pensavo mi mandaste a ca*are, invece vi ho visti sorpresi e poi la visita è durata altre tre ore. Lì probabilmente vi avvertii con un ‘se volete andare più forte degli spagnoli dovete sapere chi siete’. Noi siamo figli del Rinascimento, che è la cultura d’Europa. Ora, è chiaro che quella fosse una battuta, perché non è che vedendo un quadro togli due decimi. Però bisogna essere consapevoli”.
La parte clou della puntata verte sugli albori della carriera di Aldo, che va a ritroso nel tempo e spoglia aneddoti inediti, senza accontentarsi della superficie: “Dopo le medie, ho fatto la scuola d’arte a Pesaro, i cui studenti erano dichiaratamente quelli che non avevano voglia di studiare. Era un rifugio di scalmanati, c’erano un sacco di donne, che hanno il gusto del disegno…un paradiso terrestre. Realizzai poi, dopo cinque anni di scuola d’arte, che fossi pronto, perché poi andai a Firenze a fare una scuola di grafica pubblicitaria e scoprii che tutte le cose le avevo già imparate a Pesaro. L’arte rispetto al mio lavoro è una cosa diversa, la definizione di arte scatta quando chi la fa è matto. Voi piloti ad esempio vi inventate qualche cosa come Van Gogh, che sapeva disegnare benissimo ma noi lo ricordiamo per quei tocchi di colore da matto come un cavallo. Io invece faccio grafica, sono sempre alla ricerca della linea perfetta. Disegno la prima volta, poi sovrappongo il foglio e ridisegno quello che ho fatto col piano luminoso sotto. Quasi in maniera maniacale, un po’ come fate voi piloti quando girate e rigirate per togliere mezzo decimo. La pista è definita anche tracciato, e quello che faccio è un tracciato, grafico. Se tutti girano in 1‘48” e tu vuoi fare 1’47” devi essere matto, devi rompere la perfezione, perché se fai il giro come tutti e 25 di prima sei fot*uto”.
Ad accomunare Aldo Drudi e il mondo delle corse sono state tre persone: “Giancarlo Morbidelli, mio fratello e Graziano Rossi. Il primo ha visto un adesivo che avevo disegnato per un negozio di abbigliamento sportivo e mi ha telefonato. Immagina essere chiamato da lui, ai tempi vinceva i Mondiali, stava costruendo la 500cc quattro cilindri due tempi monoscocca. Mio fratello, che insieme a mio babbo mi portava a vedere le corse, aveva una discoteca ad Urbino, frequentata dalla Stefania (Palma, ndr), la mamma di Valentino. Graziano Rossi andava lì a tampinarla. Mio fratello dava 50'000 lire a gara a Graziano come sponsor, mi chiese di intagliare sulla tuta di pelle bianca – bellissima – la scritta Scorpio Club, nome del locale. Da quel giorno conobbi Graziano e da lì si è aperto un mondo, perché lui mi ha letteralmente portato nel paddock. Il primo casco gliel’ho fatto coi colori dell’arcobaleno, delle nuvolette e un castello fatato. Graziano era ed è un uomo di grande fantasia, un attore nato. Credo che tutto quello che in comunicazione ha fatto Valentino sia stato un modo di scimmiottare Graziano”.
A livello professionale, invece, la storia di Aldo si identifica nell’iconografia di tre piloti – tre leggende del motociclismo (Kenny Roberts, Kevin Schwantz e Valentino Rossi – legate da un sol colore. “Io andavo a sciare a Livigno con Reggiani, che una volta invitò Schwantz. Lo conobbi in quell’occasione. Da lì primo casco con Kevin che mi sdoganò a livello internazionale. Ricordo che Cereghini parlò di me durante un collegamento da Suzuka, dicendo ‘c’è un po’ di Italia in top class’, mostrando quel casco con il flash giallo che diventò famoso. Per la scintilla gialla di Kevin l’idea era quella di avere un casco che durante le riprese televisive si riconoscesse anche quando era inquadrato da girato. La cosa curiosa è che il giallo mi è sempre piaciuto, andai a vedere a bordo pista Kenny Roberts con la Yamaha America gialla quando il giallo era ancora un colore inusuale per l’Europa. Lo piazzai fluo sul casco di Kevin e con quel casco replica, con la tartaruga agganciata sulla calotta, correva Valentino nelle minimoto. Il giallo è un po’ una costante: tifoso di Kenny Roberts, poi i lavori con Schwantz, e l’inizio con Valentino proprio quando Kevin smise”.
Arriva il momento di parlare nello specifico dei Rossi, Graziano e Valentino, con cui Aldo condivide un rapporto tanto diverso quanto significativo. Si parte dal padre: “A gara due di Misano avevo in mente di portare Graziano Rossi, fargli fare un giro d’onore e farlo arrivare sul rettilineo accolto da tutti i piloti italiani, ma anche da altri. Tutto quello che fa l’Academy oggi, e che Valentino ha amplificato, era un’idea primordiale di Graziano Rossi, che ha sempre avuto un bidone di benzina, un mezzo e delle gomme per andare a fare qualsiasi cosa. Bastava chiamarlo a qualsiasi ora e lui c’era. L’Academy è un po’ figlia di questo approccio di Graziano. Così l’ho chiamato, anche su consiglio di Valentino che ha apprezzato l’idea, e lui mi ha chiesto ‘Ripeti bene’. Così gliel’ho rispiegato. Dopo un’ora mi ha richiamato e mi ha detto ‘allora, io ho una Corvette bellissima gialla, voglio fare due giri’. Io gli ho detto ‘basta uno, piano piano’. E lui ‘no piano piano, di traverso’. La sua idea è ancora quella di dare spettacolo e di divertirsi. Alla fine è la chiave di tutto. In questo è veramente il maestro, mai nessuno l’ha superato, neanche Vale”.
Poi tocca al figlio: “Valentino è cresciuto a casa mia – racconta Aldo - veniva con Graziano, che restava con me a parlare, mentre lui andava di sopra a giocare con dei modellini di macchine che avevo colorato. Una volta, da ragazzino, tornò da Suzuka e mi portò un modellino di una macchina che io stavo guidando in quel momento, fu molto carino. Ah, visto che non sono in grado di dirvi quale sia stato il mio lavoro preferito, posso dirvi che una delle cose che mi ha dato più gusto è stato suggerire a Vale di andare a fare la pis*iata nel bagno chimico di Jerez (nel 1999, ndr). Vale lo racconta spesso, ma non dice questa cosa, che è nata perché io ero lì a bordo pista, ho visto questo bagno chimico con tutta la gente dietro…allora al sabato sera gli ho detto ‘Vale, ci sarebbe da fare così e così’. Alcuni piloti non vogliono parlare dell’eventuale vittoria, invece lui è un animale: preparava tutto. Put*ana il giorno dopo ha vinto, è andato lì, poi si è arrampicato sulla rete di contenimento e c’è una foto di Gigi Soldano con Vale di schiena mentre si arrampica e tutti quelli inquadrati sulla collina che lo guardano e lo osannano. È cresciuto a casa mia e non ti nascondo che adesso subisco il personaggio. Perché è un monumento, e come i grandi monumenti bisogna avere rispetto. Ci vogliamo bene, siamo amici se posso permettermi, però allo stesso tempo quando arriva Vale fa, fa effetto”.
Si chiude in bellezza, con Migno e Carloni che chiedono ad Aldo di parlare dei progetti rivoluzionari che l’hanno portato a vincere due volte il Compasso d’Oro, che per i designer di tutto il mondo vale come un Oscar: “Il primo per una tuta che disegnai a casa mia sulla scrivania che usava mia mamma per lavorare. Ai tempi le tute erano abbondanti, con l’aiuto del dottor Costa che mi diceva dove si facevano male i piloti, disegnai per Dainese questa tuta con un sacco di inserti elastici che permettevano di non avere eccessi di materiale addosso. Una tuta aerodinamica, che proteggeva di più, e per la prima volta disegnai lo stivale che va all’interno della tuta. Perché ai tempi la protezioni per tibia e perone c’erano sia sulla tuta che sullo stivale, quindi i piloti avevano un volume bestiale sulle gambe che soprattutto in 125cc creava impedimenti a livello aerodinamico. Disegnai questa tuta avveniristica, Dainese la produsse – era un disegno completamente originale – e mi inventai queste protezioni in titanio su delle basi di carbonio. Materiali sofisticatissimi, il titanio è l’unico materiale biocompatibile, e io lo usai nei posti più esposti – gomiti, spalle, ginocchia – perché più il pilota scivola, meno ruzzola e meno danni crea alle ossa. Tutte cose che mi buttava là Costa, che io interpretavo disegnando. Dainese a mia insaputa la iscrisse al Compasso d’Oro, nonostante io fossi in quel momento fuori da Dainese. I ragazzi che lavoravano lì, che mi volevano molto bene, mi chiamarono e mi dissero ‘Guarda Aldo che con la tuta hai vinto il Compasso d’Oro’. Io, ignorante come un banco, non sapevo neanche di cosa si stesse parlando. Allora, invitato con Vale, andai a Phillip Island 2001, dove lui diede la paga a Biaggi. Mandai una ragazza a prendere il premio e quando tornai lei mi disse ‘ma te sei matto’. Poi il secondo Compasso d'Oro con Misano, per Ride On Colors, un progetto che ha come idea quello di far diventare un luogo un oggetto di design. A Milano se ne sono accorti e ci hanno premiato. Un orgoglio clamoroso, perché abbiamo portato quello che era un pizzale di cemento piatto a vincere un premio di design”.