Il dovere ce l’ha nelle prime lettere del cognome. Deve sempre, il Dovi. Anche adesso, anche alla fine di una carriera che comunque lo ha visto essere l’unico anti-Marquez, Andrea Dovizioso deve dimostrare qualcosa. Perché a guardare come gira il mercato, a provare ad azzardare qualche schieramento futuro, vuoi vedere che viene fuori che è proprio quella di Dovizioso la sella che scotta di più?
In Ducati si sono affrettati a far sapere che è una questione di soldi. E il management del forlivese s’è altrettanto affrettato a far sapere che di soldi nessuno ha ancora mai parlato. Nel mezzo ci stanno gli ammiccamenti tra la casa di Borgo Panigale e Jorge Lorenzo, consapevoli, entrambi, che il loro è stato un divorzio prematuro, deciso quando ancora la coppia, moto e team, non aveva rodato le regole della convivenza. E oltre a Lorenzo ci sono pure i contratti già sottoscritti con Ducati di Jack Miller e Jorge Martin, oltre ai rinnovi di Pecco Bagnaia e di Johann Zarco. Insomma, posto per tutti non ce ne è e il rischio che a scendere dalla moto possa essere l’unico che fino a ieri non era in discussione comincia ad apparire piuttosto concreto.
Anche perché ad Andrea Dovizioso la velocità non piace più. Recentemente Dazn ha chiesto ai piloti che cosa significasse per loro spingere al limite bestie indomabili da 270 cavalli. Tutti hanno dato definizioni veementi e sanguigne. Andrea Dovizioso ha liquidato la pratica con un educatissimo commento: “È quello che mi riesce meglio. Le corse sono la mia vita. Mi sento fortunato a saper guidare queste moto”. Punto. Ma non punto e a capo. Perché basta aprire “Asfalto”, il suo ultimo libro, o guardarsi “Undaunted”, il documentario realizzato su di lui da Red Bull, per capire che ad Andrea Dovizioso interessa il cross. Ecco perché l’ipotesi KTM per lui non era così assurda: lì nel cross c’è una tradizione radicata e magari un altro paio d’anni nella velocità, con tanto di sponsor comune tra Team e pilota, sarebbero serviti proprio a coronare un sogno. Ma in KTM c’è finito Danilo Petrucci, un altro dei trattati a pesci in faccia da Ducati.
Tra le pagine di quel libro e i fotogrammi di quel docufilm si capisce pure che Andrea Dovizioso è stufo di dover sempre dimostrare qualcosa. Perché lo fa da sempre, sin da quando, piccolissimo ed insieme ad un babbo per il quale spende parole crude e dolcissime al tempo stesso, andavano alle corse con i soldi che bastavano solo per raggiungere il circuito e correre. Senza sapere, quindi, con quali denari sarebbero tornati. Insomma, con l’incertezza del dopo c’ha sempre dovuto fare i conti. E venendo a scoprire certi aneddoti diventa facile pure immaginare perché Andrea Dovizioso bambino scoppiava a piangere quando non vinceva. Una cosa, questa del piangere quando arrivava secondo, che i suoi detrattori hanno spesso portato a motivazione dei loro “Dovizioso perché no”.
Eppure ha vinto un campionato del mondo in 125, eppure si è dimostrato un ragazzo più timido che antipatico, eppure ha preso per mano una Ducati domabile solo da un certo Stoner e l’ha fatta crescere. Come fa un padre con una figlia. Tenendo surrettiziamente dritta la barra. A testa bassa. Il pilota perfetto per Ducati, una casa che ha sempre preteso il riconoscimento per i pregi delle sue moto da corsa, lasciando ai piloti la fetta grossa della responsabilità dei fallimenti. Le spalle di Andrea Dovizioso sono state grosse per anni. Ci si è caricato sopra di tutto, anche quello che forse non avrebbe dovuto. E portando quella moto fino ad un passo dal miracolo, nel 2017. Avrebbero dovuto dirgli grazie tutti quanti. Qualcuno avrebbe forse dovuto chiedergli pure scusa. Invece gli hanno detto che è arrivato secondo perché non era abbastanza capace di arrivare primo. Chiunque, per molto meno, avrebbe mandato tutti a quel paese. Come ha fatto proprio quel Jorge Lorenzo che in questi giorni è la prova provata di quanto sia vero il proverbio “in amor vince chi fugge”.
Andrea Dovizioso, però, non è uno che fugge. Sta lì. E, male che vada, smette! Ma Ducati farebbe bene a pensarci a fondo, e magari fare uno sforzo economico se davvero il problema sono i soldi, anche perché in giro di prospettive migliori non se ne vedono. E di proverbio ce ne è anche un altro: “le minestre riscaldate fanno sempre schifo”.