Che colore ha la morte? E una di quelle domande senza senso che si finisce per farsi quando si fanno i conti con la più cinica delle verità: nessuno è immortale. Nessuno e, quindi, nemmeno i piloti. Per chi, però, ha vissuto di corse, la morte può avere il colore dell’asfalto, quello dell’ultima bandiera a scacchi o, più semplicemente, quello della moto con cui si sono scritte le pagine più intense di una vita. Anche di quelle vite che sono state intense di brutto, e magari pure oltre il limite, come quella di Anthony Gobert. La morte, verde come la Kawasaki con cui era capace di fare di tutto in Superbike e di esprimere tutta la rabbia che da sempre s’è portato dentro, sta passando a riprenderselo. A soli 49 anni.
Lo ha annunciato suo fratello, Aaron, nei vari profili social che fanno riferimento al numero 4 di quello che è stato, di fatto, l’ultimo dei piloti maledetti. Un post breve e che non lascia spazio a alcuna speranza e che, anzi, sottolinea pure come in questi giorni stiano circolando video di un Anthony in condizioni pietose. Devastato da non si sa che cosa. E pure con difficoltà evidenti persino nel parlare.
Quei video, però, forse non sono solo una mancanza di rispetto. Ma sono, tristemente, anche una testimonianza di come si possa arrivare sul tetto del mondo e di come si possa vivere facendo ciò che per altri è solo divertimento, senza essere mai abbandonati dal tormento. Il tormento: colui che rimane. Mentre, magari, a abbandonarti è stato un mondo che tu stesso hai contribuito a fare grande e di cui sei stato protagonista, ma che non c’ha pensato più di troppo a metterti addosso quell’etichetta che magari ti sarai pure meritato, ma che forse poteva aspettare. Sotto forma di nuove possibilità. Sotto forma di mani tese. Sotto forma di carezze da quelle stesse persone che quella maniera eclettica, quell’indole tutta istinto, te l’hanno fomentata fino a quando ha fatto comodo. Allo sport. Allo spettacolo. O, più semplicemente, al sentirsi migliori. Perché sarà anche vero che nessuno sarà mai in grado di aiutare chi non vuole farsi aiutare, ma è altrettanto vero che quei video – che pubblichiamo proprio per questo – probabilmente dimostrano che chi avrebbe potuto non ci ha provato abbastanza.
Su chi è stato Anthony Gobert c’è di tutto da scrivere. Uno che, alla fine, s’è arreso solo ai demoni interiori che lo prendevano a sportellate da dentro, mentre lui prendeva a sportellate tutti gli altri, nell’Ama Superbike, nella MotoGP o nella Superbike, con quella Kawasaki verde (ma non solo) con cui ha fatto godere chiunque amasse un po’ – un po’ e davvero – le corse. Godere e incazzare come ti fa godere e incazzare uno che delle regole se ne sbatte, che corre per rispondere a un istinto, che persegue performance e prestazioni non per mettersi in garage un trofeo o in tasca i soldi, ma per distrarsi da quella sofferenza che, invece, non si fa sorpassare mai. Il resto è solo giudizio. E pregiudizio. Oppure è mera spettacolarizzazione anche degli ultimi istanti, quelli in cui si aspetta solo di poter fare i dispiaciuti. E invece no: Gobert ha sorpreso ancora, senza poterlo neanche fare. Perché l’annuncio dell’imminente morte, fatto, appunto, quando la morte non è ancora arrivata, è quasi un cambio di direzione fulminio come quelli di cui era capace – con il culo totalmente ancora fuori e le spalle a ritirare già su la moto – che suona un po’ così: “e adesso piangetemi, stron*i, ma abbiate le palle di farlo quando ancora sono qui”. Anche se su un letto d’ospedale, anche se quasi morto, dopo essere stato “doppiamente vivo” per tutta la vita. Go the Show, Anthony!