Quando si parla di Formula 1 arrivare sulla cima insieme ai campioni non è affatto scontato, in uno sport dove anche un semplice millesimo in più o in meno ha il potere di fare davvero una grande differenza. La bravura di Michael Schumacher nel Circus veniva messa in scena tutte le domeniche, in modo particolare durante il ciclo vincente della Ferrari, mattoncino dopo mattoncino a partire dal 1995. Già durante il primo giorno di test a Fiorano iniziò a guidare due macchine: una in pista e l’altra all'interno dei box. Una macchina che però non era fatta di ruote, ma di persone. Schumacher riuscì a conquistare tutti, dando lui stesso per primo l’esempio del lavoro quotidiano, ponendosi come un leader sia tecnico quanto carismatico, un ruolo che sia Jean Alesi che Gerhard Berger non sono mai stati in grado di ricoprire. Durante l’autunno del 1995, Schumacher giunse in Ferrari dalla Benetton, e al suo arrivo incontrò per la prima volta un giovane appena laureato, Mattia Binotto, che a distanza di 24 anni sarebbe poi diventato il team principal della Scuderia: “È stato un pilota straordinario, che a noi ha dato tantissimo, devo dire. È stato un pilota straordinario per quel che ha vinto e ha dimostrato di essere, ma anche per generosità, carisma e leadership. E credo che quella mentalità ce la siamo portata poi anche nelle nostre esperienze successive”. Queste le parole di Binotto nel corso di un incontro al Panathlon Club di Parma, dove si trovava in compagnia di Aldo Costa e Giampaolo Dallara: “Io me lo porto dietro ancora oggi nel mio percorso professionale, penso sia stato lo stesso anche per Aldo in Mercedes e in Dallara. Da team principal cercavo anche di ricordarmi quale fosse la cultura dell’epoca e come applicarla. Al tempo facevamo gare e test di continuo, quindi erano 210 giorni all’anno in pista, era più il tempo che passavo con Michael che con la famiglia: ho sempre detto che in Ferrari non ci si lavora, ma ci si vive“.
Mattia Binotto ha raccontato anche del suo primo incontro con il sette volte campione del mondo: “Era il novembre del 1995, io ero un neolaureato, lui era campione del mondo con la Benetton ed era appena passato in Ferrari. Nel suo primissimo test con noi, era in tuta completamente bianca, senza sponsor, perché ancora non era l’inizio della stagione successiva. Fece un solo giorno a Fiorano per abituarsi alla macchina, allora avevamo ancora l’ultimo nostro 12 cilindri. Poi ci siamo trasferiti all’Estoril per il primo test vero. Noi eravamo abituati ad Alesi e Berger, due piloti a cui sono molto affezionato. Alle 9 del mattino c’era il semaforo verde, dopo il quale si cercava di capire la macchina, di migliorarla e di svilupparla. Il pilota era abituato ad arrivare alle 8:50, il tempo di infilare la tuta, il casco e salire in macchina. Si faceva l’installation lap, dove la vettura rientrava e i meccanici controllavano che la macchina non avesse assolutamente nessun problema, nessuna perdita di olio, di acqua, mentre gli ingegneri guardavano i dati: a quel punto il pilota aveva fatto il suo primo giro, scendeva dall’abitacolo e iniziava a parlare con l’ingegnere del programma. Poi verso le 16 si rinfrescava l’aria, con la pista un po’ più fresca e tendenzialmente più veloce. Allora toglievamo benzina, mettevamo le gomme più fresche, in modo che sui giornali l’indomani ci fosse il titolone sul tempo record all’Estoril. Quando Michael venne da noi, invece, la prima volta arrivammo all’Estoril alle 8.30: tutto il gruppo era in pista, Michael era già lì, seduto sulle scalette del motorhome che ci faceva il segno dell’ora. Ci diceva che alle 8 bisognava fare tutte le mattine il meeting, per parlare del programma e decidere cosa fare, per poi avere alle 9 la massima efficienza”.