Enzo Ferrari smette di correre in auto dopo la nascita del suo primo figlio, Dino. Dino che ha tutto, che è tutto. Fin da piccolissimo studia, guida, cresce per le corse, nelle corse, dentro le corse. Diventa un ottimo pilota, ma soprattutto un ingegnere dal talento formidabile, l’orgoglio più grande di Enzo, un padre che in lui vede fin da subito il sicuro futuro della sua Ferrari. Il destino però gli si mette di traverso e sposta l’asse dell’equilibrio, dando alla storia del Drake qualcosa che nessuno avrebbe immaginato. È presto chiaro a tutti che Dino non è sano: è lento nei movimenti, affaticato come un ragazzo della sua età non dovrebbe essere. Quando la malattia prende la forma della diagnosi le cose, per la famiglia Ferrari, non vanno meglio: distrofia muscolare di Duchenne. Nessuna cura. Una malattia rara neuromuscolare che con una rapida progressione porta alla atrofia e alla degenerazione dei muscoli scheletrici, non lasciando scampo a chi ne è affetto.
Dino smette prima di correre, poi di camminare e alla fine smette anche di studiare. Mamma Laura inizia soffrire di crolli nervosi dettati dai ritmi incessanti del progredire della malattia. Papà Enzo prova, per quanto possibile a far finta di niente. In un giorno però qualcosa cambia per sempre, nella testa di Enzo Ferrari. È pomeriggio e dal bastione di San Marino la vista sulla valle del Marecchia è da togliere il fiato: il Drake e il figlio vogliono arrivare in alto per godersi la vista e ascoltare, alla radio, l’ultima impresa della Ferrari che proprio in quel momento sta vincendo a Le Mans. Enzo porta la radio, e guida il figlio facendo strada. Dino lo segue. Addosso non porta gli anni del padre ma fatica, non regge il passo, e continua a fermarsi per riprendere fiato. Enzo lo vede arrancare, sa che finge di star bene. Davanti a se la bellezza senza fiato dell’inizio di un tramonto estivo, alla radio la gloria di quella che ha sempre pensato essere la sua gioia più grande, la Ferrari, e alle sue spalle il dolore di una perdita che finalmente ha un volto, ha un aspetto. Ha la forma concreta di un ragazzo di appena vent’anni che c’è ma che, allo stesso tempo, già non c’è più. Non riesce a camminare al suo passo, e mai più lo farà. È il segno di una malattia che non ritorna indietro, che non fa altro che peggiorare, togliere, raschiare.
Enzo Ferrari in quel momento guarda il dirupo della Marecchia sotto al bastione di San Martino e pensa con grande lucidità al coraggio che non ha. Di coraggio nella vita il fondatore della Ferrari ne ha avuto sempre un po’ più degli altri: davanti alle innovazioni, alla guerra, alle sfide, ai grandi che volevano tenerlo piccolo, ai piccoli che speravano di diventare grandi come lui.
Eppure il vero coraggio, pensa Enzo Ferrari, sarebbe morire in quel preciso momento. Prendere Dino, malato ma ancora in forze, abbracciarlo forte e buttarsi con lui nel vuoto sotto di quel dirupo. Strapparlo dal destino crudele di una malattia e dall’atrofizzarsi dei muscoli, del suo tempo, di una vita già scritta. Ma non ce la fa. Enzo Ferrari non ce l’ha, questo coraggio. Scende dal bastione di San Marino al fianco di Dino, lo accompagna fino alla fine, che arriva il 30 giugno del 1956, quando muore a soli ventiquattro anni. E va avanti, come ha sempre fatto.
Siamo abituati a pensare ad Enzo Ferrari come all’uomo che è stato in grado di disegnare il suo sogno, rendendolo il sogno di tutti, ma la verità è spesso lontana dall’immagine che ci facciamo. Perché a 35 anni dalla sua morte questa storia racconta più del Drake di tutte le sue auto, le sue battaglie, le sue vittorie, le sue invettive contro giornalisti e nemici. Ci dice qualcosa del suo coraggio, e del suo cuore. E della sua vita. La vita di uomo, prima che di un mito.