Quando Valentino Rossi è arrivato in Yamaha, Carlos Checa era già da un po’ in quel box, in sella a una moto che, a detta di chiunque, non voleva saperne di andare forte e mai ci sarebbe andata. Ora DAZN ha affidato proprio a Checa il racconto di quei giorni: “Eravamo come addormentati, chiusi nella certezza che tanto le Honda erano imbattibili. Quando è arrivato Vale c’ha suonato la sveglia a tutti”.
Una sorta di iniezione di fiducia che è arrivata in un momento difficile e che aveva la faccia di un pilota al massimo della sua carriera, che aveva accettato di vestire i colori della Yamaha con l’unico obiettivo di vincere ancora tanto. “Per me è stata una lezione di vita – ha aggiunto Checa - e la verità è che con Vale mi sono sempre trovato molto bene. Era una persona molto trasparente, lui è quello che si vede. Era molto competitivo, aveva enormi capacità e, soprattutto, una capacità mentale di gestione che faceva impressione. Penso che sia un ragazzo diverso da tutti e, nonostante questo, traspariva in lui una gran voglia di imparare, di sapere sempre di più, di studiare ogni dettaglio”.
Un modo di fare, quello di Valentino Rossi, che alla fine è diventato contagioso, con Checa che ha raccontato di aver lavorato il doppio per sviluppare una moto che comunque, in quel momento lì, aveva ancora qualche problema. “Abbiamo lavorato molto con la moto – ha spiegato - credo che abbiamo fatto un lavoro brutale con quella Yamaha, ma la soddisfazione è che l'anno dopo hanno fatto una nuova moto e sono dovuti tornare a quella vecchia, che è quella che avevano lasciato indietro, perché s’era rivelata di gran lunga migliore. Sono cose che quando fai il pilota valgono come una vittoria".
Aneddoti di una vita passata nelle corse, con Checa che ai microfoni di DAZN ha raccontato pure il momento peggiore della sua carriera: il pazzesco incidente di Donington del 1998. “Se c’è stata una volta che ho pregato nella mia vita è stata quella volta lì – ha detto quasi con un filo di commozione - Non riuscivo a respirare e sentivo che il mio corpo era paralizzato. Non potevo fare niente e sentivo solo di essere nelle mani di tutta quella gente che mi stava intorno. Ho cominciato a pregare. Quelli sono stati i miei momenti più difficili. Dimentichi tutto e pensi solo a poter tornare a camminare, anche perché per tornare a farlo c’è voluto tempo e è stata durissima. Ero così incasinato che non riuscivo nemmeno a scoreggiare. Poi, per fortuna, sono potuto tornare, oltre che a camminare, anche a correre. Correre è la cosa che ancora oggi mi piace di più, che sia in macchina o in moto. Voglio tornare a fare la Dakar, ma non voglio andarci per partecipare: io voglio essere nelle condizioni di vincere”.