La notizia della domenica mattina, ad Assen, è che Marc Marquez ha deciso di non correre: le due cadute in Olanda hanno aggravato le fratture riportate al Sachsenring, specialmente quella al costato di cui inizialmente non si avevano avute notizie, al punto che l’equipe medica guidata dal Dr. Angel Chartre ha preferito non concedergli il ‘fit’ per la gara. Anzi, Marc ha spiegato che è stato lui stesso a recarsi al centro medico per chiedere se fosse il caso di correre. Per gli amanti delle statistiche questo significa che è da otto mesi (o se preferite 245 giorni) che Marc Marquez non finisce un GP: l’ultimo è stato a Sepang nel 2022, dove chiuse con una settima piazza a cui sono seguiti soltanto ritiri ed infortuni. Una situazione triste che fa male allo sport e a chi lo segue, ma più Marc Marquez continua a rimanere in questa situazione più la sfortuna (o il karma, come dice qualcuno) ha un ruolo marginale. Come è possibile che un uomo come lui - sveglio, addirittura geniale - non si renda conto di quando è il momento di fermarsi? Eppure è stato proprio lo stesso Marc Marquez che, per aver accelerato i tempi di recupero in seguito ad un infortunio, si sta giocando la carriera. È quel Marquez lì, con quattro anni di calvario alle spalle, non il Marquez del 2019.
Invece dalle parole del Dr. Chartre si intuisce piuttosto chiaramente che anche stavolta - proprio come nel 2019 - è stato il pilota a voler accelerare i tempi: “Attraverso alcuni esami abbiamo visto che la frattura al costato si era allargata e spostata, provocando molto dolore a Marc. Un’altra caduta avrebbe potuto peggiorare ulteriormente le cose e compromettere la respirazione”. Una versione che ci ha raccontato anche Alberto Puig, che oltre ad aver spiegato che Honda non ha intenzione di trattenerlo contro la sua volontà ha detto a chiare lettere che la decisione di partire per l’Olanda è stata di Marc. Qui però, esattamente come nel 2019, si apre un altro discorso: ma come è possibile che un pilota così ambizioso non venga gestito con attenzione dalla sua squadra? Se lo chiede anche Carlo Pernat nel nostro consueto appuntamento dopo il weekend di gara. La sua gente dopo cinque diverse cadute in Germania - e due diverse fratture - avrebbe dovuto fermarlo, Marc Marquez ad Assen non avrebbe dovuto correre anche considerando il fatto che la moto è tutt’altro che competitiva e lui lontanissimo dalla lotta per il titolo. D’accordo, sviluppare la moto e togliersi dal fango il prima possibile è fondamentale, ma dopo quattro anni passati tra interventi, riabilitazione e cadute è possibile che non abbia cambiato approccio?
Ad un altro pilota nella sua situazione - pensate ad Jorge Lorenzo, Daniel Pedrosa o anche a Valentino Rossi - avrebbero dato del pazzo. Gli avrebbero detto di riposarsi, prendersi il tempo necessario per tornare, esattamente quello che ha fatto quest’anno Enea Bastianini dopo la frattura alla scapola riportata a Portimão. Con Marc Marquez questa cosa non viene fatta (o detta) neanche dopo tutto quello che ha passato al braccio destro, quattro operazioni soltanto lì. Quello di Assen è un errore della squadra che avrebbe dovuto tenerlo fermo ma anche un errore suo, di Marc Marquez, specialmente considerando che lui punta ad essere il migliore di sempre: in quel caso, devi saper far bene tutto. A Marquez invece manca la pazienza, forse anche un po’ la lungimiranza (perché al contrario forse non avrebbe firmato per quattro anni con HRC) e, in definitiva, la capacità di ragionare a mente fredda. Se non altro pare averlo fatto con la moto, che ha cominciato a guidare pensando allo sviluppo più che al risultato. Anche se la sensazione è che potrebbe essere troppo tardi.