Thymos. E’ un termine del greco antico che non ha una traduzione secca. Identifica il coraggio, ma pure un po’ la pazzia e il genio, sottintende sofferenza e calore mischiandoci dentro, però, anche tanta fierezza e sentimenti. Tanto che nella letteratura greca quelli con un Thymos un po’ troppo prevalente vengono descritti come quelli che si ritrovano troppo spesso, ma non a ragione, a essere considerati pazzi. Guerrieri anche quando c’è nulla da combattere. Anche a costo d’essere irragionevoli e fare del male, farsi del male. Thymos è una roba che ha la residenza nel cuore, anzi nel battito del cuore, è passione senza controllo con il vizio e la supponenza di poterla spuntare sempre su ragione e mente. Loro, la ragione e la mente, sono gli altri due pezzi che fanno l’anima, ma - come ha provato a raccontare Platone – risiedono altrove: la mente, intesa come desiderio, vive nella pancia, la ragione, ovviamente, nella testa. Quando non c’è armonia, viene meno la lucidità.
Sono in tanti in questi giorni a raccontare di un Marc Marquez pazzo, di un pilota con lo sguardo perso e che finisce per contraddirsi in quello che fa e tutto quello che dice. Anche ieri, in conferenza stapa a Assen, ha detto tutto e il contrario di tutto. Non è lucido e è evidente. Ma non è pazzo. Sa quello che fa. Sa quello che vuole. E non è nemmeno in preda alla rabbia. Meno che mai sta pensando all’andare via, al colpo di testa, all’uscita di scena clamorosa. Marc Marquez sta solo facendo i conti con un Thymos che in trent’anni non è mai dovuto scendere a compromessi con la mente, appunto, e nemmeno con la ragione. Desiderava vincere e vinceva. Alla parte della ragione ci pensava, magari anche per lui, una moto, la Honda, che gli ingegneri giapponesi riuscivano a rendere perfetta non per tutti, ma per uno che quando sale in sella si porta dietro, appunto, solo il Thymos.
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Solo che adesso questo significa cadere cinque volte in un fine settimana. Significa ritrovarsi con la voglia di andare via lasciando a metà un intero fine settimana di lavoro. Significa dover prendere coscienza che “vincere”, oggi, è ambizione e aspettativa che spinge, ma che dovrà aspettare. Lo sa ogni volta che è vestito da civile, ogni volta che è giù dalla moto, e non perde occasione per dirlo. “Dobbiamo lavorare, essere consapevoli che non siamo da titolo e cercare di diventarlo” – ha detto anche ieri. Solo che poi c’è da salire in moto e in moto uno come Marc Marquez non ammette passeggeri diversi dal Thymos. Non è una colpa, è umanità.
Una volta era quello che sorrideva sempre. Di quei sorrisi che danno pure fastidio, perché sembrano un po’ nascondere la certezza quasi boriosa di chi è consapevole di essere il più forte. Marc Marquez sorride ancora, solo che adesso nel retrosguardo c’è altro: la profonda tristezza di chi s’è ritrovato senza riconoscimento. Che poi, per chi vive di gloria, significa senza identità. Nonostante tutto quello che ha fatto per tornare e riprendersi ciò che è suo. O che ha sempre considerato solo suo. In mezzo, oltre agli infortuni e al tempo che passa, c’è la Honda, ma c’è anche un ambiente che nel frattempo ha imparato a “fare senza Marquez” e che, vuoi o non vuoi, adesso che il re è tornato e soffre sembra non riconoscergli più neanche l’onore del passato. Che è stato viziato da una rivalità, da un modo di vivere le corse che attiene più al calcio che alle corse, ma che è stato comunque glorioso. Otto titoli mondiali e cannibalismo.
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Otto titoli mondiali e Thymos. Con il Thymos che prima, però, rendeva eroe e oggi finisce per farti passare per pazzo. Marc Marquez ha fatto di tutto per tornare, ma è come se Honda e l’ambiente, adesso, gli chiedessero di fare proprio quella cosa che è impossibile per lui: lasciare prevalere gli altri due pezzi dell’anima. Quegli occhi smarriti, quel modo di parlare che sembra davvero poco lucido, forse, sono solo un modo di elemosinare comprensione: io sono Marc Marquez, io non so, e probabilmente neanche voglio, chiedere al mio Thymos di fare un po’ meno. Perché è qualcosa di paradossalmente più forte anche della voglia stessa di vincere ancora. Vincere subito. Marc Marquez è un eroe greco, ma gli si chiede di fare l’Alfieri, quello che si fece legare a una sedia per diventare ciò che non era nealla sua natura al motto di “volli, sempre volli, fortissimamente volli”. E’ Honda – o, se sono vere le voci di mercato dovrà essere KTM o chi lo accoglierà – a dover bilanciare il Thymos di Marc Marquez. E è esattamente quello che l’otto volte campione del mondo sta chiedendo: un modo di lavorare diverso, più audace, meno attendista, senza paura di un fallimento che tanto, visto come stanno le cose, è fallimento lo stesso. Marc Marquez può muoversi da ovunque, ma non può muoversi da quel sole lì. La risposta alla sua richiesta non può essere il cinismo. Anche se è chiaro che il cinismo è nella natura dei tecnici e anche se è altrettanto chiaro che il cinismo deve essere nella natura di un colosso industriale.
A proposito di cinismo: ce ne è un altro di episodio della letteratura greca che viene in mente. E’ quello di Diogene di Sinope (il padre, appunto, della scuola cinica) . Diogene era sdraiato al sole quando Alessandro Magno arrivò in visita nella sua città, accolto da una folla di filosi e artisti che volevano entrare nelle simpatie del grande condottiero. Tutti con la lingua di fuori (anche se non è così che la racconta Plutarco) pronti a osannare, tranne Diogene. Tanto che Alessandro Magno andò proprio da Diogene di Sinope incuriosito e infastidito da quell’atteggiamento, chiedendo al filosofo se potesse fare qualcosa per lui. “Sì – fu la risposta – stai un po’ fuori dal mio sole”. “Se non fossi Alessandro Magno – fu la sorprendente replica – vorrei essere Diogene”. Forse Marc Marquez e la Honda devono solo capire chi è Alessandro e chi è Diogene e, poi, condividere lo stesso sole. Farsi la guerra non conviene a nessuno dei due, meno che mai spostarsi troppo l’uno dal sole dell’altro. E lo sanno entrambi.
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