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Casey Stoner shock: “Vincere era morire. Volevo solo raggomitolarmi a terra come un cane”

3 febbraio 2022

Casey Stoner shock: “Vincere era morire. Volevo solo raggomitolarmi a terra come un cane”
Il pilota australiano racconta l’incubo vissuto negli ultimi anni in MotoGP. Soffriva di crisi di ansia, ma l’ha scoperto solo quando ormai aveva appeso il casco al chiodo: “Più andavo forte nel fine settimana e più mi sentivo morire dentro”

Casey Stoner non rimpiange neanche un po’ gli anni in cui era protagonista in MotoGP. Lo dice in continuazione e lo ha ribadito anche recentemente, ospite del podcast Gypsy Tales, raccontato che le ultime stagioni in Classe Regina sono state per lui un vero e proprio incubo. Fatto anche di pesantissime crisi d’ansia che hanno generato non poche incomprensioni nel suo box e tra gli uomini delle sue squadre.

“Avevo una cattiva reputazione – ha ricordato - perché a volte ero molto chiuso con le persone e con la stampa: non mi sono mai sentito a mio agio. Per non parlare della domenica di gara. Per anni, probabilmente negli ultimi due anni di gare in MotoGP, più il weekend andava meglio, più volevo morire. Volevo solo raggomitolarmi sul pavimento del motorhome, come un cane malato e con lo stomaco in mille nodi. Non volevo correre e non potevo sentirmi peggio”. Sensazioni che il pilota australiano non dimenticherà mai e che hanno contribuito a fargli maturare la decisione di chiudere con le corse in moto. Anche perché all’epoca nessuno era riuscito a diagnosticargli il vero problema: l’ansia.

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Quella che blocca tutto, che rende diversa la realta e che finisce per far mancare il respiro. “Mi è stata diagnosticata solo di recente, in realtà non sapevo nemmeno cosa fosse prima e anzi  pensavo che l’ansia fosse solo qualcosa che la gente si inventava per giustificare lo stress. Anche la mia schiena si blocca a causa dell'ansia. È una sensazione che avverto quando mi trovo in situazioni in cui non mi sento a mio agio”. Succede ancora, quindi, e ancora di più succedeva quando Casey Stoner era il pilota di riferimento della MotoGP, magari non il più vincente, ma di sicuro quello di maggior talento e che di conseguenza doveva dimostrare ogni volta più di tutti gli altri.

“Sentivo la pressione della squadra – ha concluso Stoner – le attenzioni di tutti quelli che mi seguivano e che si aspettavano qualcosa da me. Avevo una squadra di 70 persone e, soprattutto quando sei il pilota numero uno, tutti si aspettano una vittoria. Solo dopo aver concluso la mia carriera ho compreso il perché di tutto questo. Sarebbe stato più facile gestire la mia mia carriera se avessi avuto prima una diagnosi certa”.

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