8 luglio 2007. Il Centrale di Wimbledon non è ancora stato dotato di tetto retrattile, e non se ne avverte il bisogno. Per la finale dei Championships Londra ha stipulato una tregua di quattro ore con le nubi, sull’erba più curata e calpestata al mondo le ombre di Federer e Nadal sembrano disegnate col righello. Alla fine del primo set i due danno sfogo ad uno scambio che supera la barriera dei dieci colpi: l’undicesimo è un rovescio incrociato e profondo con cui Roger meriterebbe di guadagnare il punto, se non fosse per un recupero inimmaginabile di Rafa, che con una rastrellata mancina lungolinea solletica la vernice bianca alla destra dell’avversario, già a ridosso della rete. Un vincente che manda in estasi la cabina di commento di Sky: “Beehhh così si gioca in paradiso! Così si gioca in paradiso”, ripete Rino Tommasi. “C’è un vescovo incaricato di faccende come queste – lo contiene Gianni Clerici – stai attento che così ti prendi la scomunica”. “Io non ci sono mai stato – riprende Rino riferendosi al paradiso – e forse non ci andrò, ma in ogni caso segno questo punto con un doppio circoletto rosso”.
Il doppio circoletto rosso era il massimo per la penna del professore, giornalista, scrittore e telecronista Rino Tommasi. Era la perfezione, il limite insuperabile, il non plus ultra dei complimenti e delle leggi geometriche del Tennis, che da celestiali diventavano improvvisamente terrene. Nel doppio circoletto rosso intravedeva la speranza di un futuro migliore, di un’esistenza in cui due più due fa sempre quattro, di uno sport che per qualche breve istante non viene corrotto dal diavolo e dagli sbalzi d’umore di chi lo pratica. Il doppio circoletto rosso era l’allineamento dei pianeti, una coincidenza astrale del tutto eccezionale per cui persino Rino Tommasi – ComputeRino - poteva sacrificare parte della sua compostezza per divagare e sbrodolare, materie solitamente di competenza del compagno di telecronache Gianni Clerici, Dottor Divago.
Gianni si perdeva in pericolose ridarole ed elucubrazioni mentali su Lleyton Hewitt che di punto in bianco lasciava l’Arthur Ashe per appartarsi con il suo massaggiatore? Nessun problema, Rino lo richiamava alla serietà professionale informandolo dei risultati in evoluzione sul resto dei campi degli Us Open. Gianni si dilungava sull’abbigliamento della moglie di Federer, dicendosi perplesso di come Mirka avesse accostato i colori della sua mise? Rino riportava l’attenzione sul punteggio, con un severo e risoluto “trenta-quindici”. Eppure in certe occasioni i ruoli si invertivano, con Rino che smetteva di essere spalla comica, prima voce integerrima, macchina da statistiche, alchimista impeccabile di parole e silenzi, per proferire al popolo del Tennis letture di gioco di rara bellezza: “Palla calante, volée perdente”, “gli ha fatto fare il tergicristallo”, oppure “chiamato a giocare di fino, rivela le sue umili origini”. Preciso, pulito, efficace, simmetrico, tagliente. Come una legge matematica che inquadra la realtà delle cose. Come un Pitagora prestato allo sport.
Federico Ferrero, oggi voce del Tennis per Eurosport e Sky, ha raccontato così Rino Tommasi nel libro “Parlare al Silenzio”: “Nella mia stanza, davanti alla scrivania, c’era una miriade di foto appiccicate l’una sull’altra. L’unico non tennista era Rino Tommasi, con la giacca grigia, il gelato (il microfono di gommapiuma di Tele+2) e quello sguardo definitivo, che ti fissava con una sicurezza implacabile e sussurrava ‘sto per dirti una cosa che sicuramente è giusta’. Nonostante la mia predilezione non fosse per lo stile asciutto e british, restavo ammirato dalla limpidezza nell’esporre idee e concetti. Non che avesse una bella voce, perlomeno tecnicamente, nasale e con i toni un po’ schiacciati, ma scandiva le parole in modo tale che parevano uscire dalla sua bocca come fossero state scalpellate. Se una partita faceva schifo, in bel modo trovava la maniera di dire che la partita faceva schifo, ‘perché non vendiamo tappeti’, anche se era direttore della rete che lo metteva in onda e non aveva interesse a squalificarne il prodotto”.
All’onestà intellettuale, al dono della sintesi, alla naturale eleganza nel linguaggio scritto e parlato, Rino Tommasi affiancava una mole di lavoro e di studio che professionisti talentuosi come lui mai si sarebbero sognati di imbastire. Anche in stato di ebbrezza non avrebbe sbagliato il risultato del secondo turno di del doppio misto di un Wimbledon dell’anteguerra, vero, ma sapeva mescolare la conoscenza inesorabile dei numeri con una continua spinta creativa. Non era supportato da una tecnologia che potesse recapitargli in tempo reale le statistiche del match: lui stesso interpolava la percentuale di punti vinti con la seconda di servizio da Agassi, lui solamente sottolineava quanto quel dato fosse importante per comprendere l’andamento della partita. Non era aiutato dalla potenza evocativa e pirotecnica delle odierne clip televisive: la sigla – “Bongo Bongo Bongo”, brano di Renzo Arbore – la cantava lui a cappella, insieme a Gianni. Prima dell’immancabile formula: “Benvenuti all’appuntamento col Grande, Grandissimo Tennis”.
Esistono persone che hanno cominciato a seguire il Tennis solo per le telecronache di Tommasi e Clerici, e che hanno smesso di farlo quando Rino e Gianni sono andati in pensione. Esistono persone che ancora oggi scelgono di guardare una replica di una partita da loro commentata, non importa quale, per sentirsi in pace col mondo. E poi esiste quella sensazione, silenziosamente diffusa nell’ambito della cronaca sportiva, alla costante ricerca di termini nuovi e trovate originali, secondo cui tutto sia in qualche modo già stato inventato da Tommasi. Lui ci ha consegnato gli strumenti. Ci ha dato le basi, inteso nella maniera più volgare, irrisoria e declassante possibile. Quella che si userebbe al campetto dell’oratorio. Quella che Rino mai avrebbe adoperato. Perché lui scrive come si fa in paradiso. L’ha sempre fatto.