Scrivere che non siamo pronti al ritiro di Rafa Nadal e allegare la faccina con la lacrimuccia sarebbe un’azione ipocrita. Rafa ci aveva predisposti all’evenienza con ampissimi, lungimiranti e delicati preamboli, srotolati negli ultimi due anni, in campo e nelle conferenze stampa. Come dolci carezze che anticipano la brutta notizia. Eppure quel “al 99% il 2024 sarà la mia ultima stagione, ma non ne sono sicuro” – frase appiccicata ai registratori di qualsiasi intervista rilasciata dallo spagnolo in questi mesi – ci aveva fatto sperare che lui potesse mettere nuovamente il tempo con le spalle al muro, relegandolo sui teloni di fondo campo, frullandolo con uno dei suoi dritti carichi di effetto.
Che quell’uno per cento rimanente potesse rimandare le probabilità di precipitazione dell’inevitabile era sembrato plausibile, per la prima volta, lo scorso maggio a Roma: Rafa, sconfitto con punteggio severo da Hubi Hurkacz, abbandonava il Centrale del Foro Italico arrabbiato per la prestazione, rifiutando il tributo che gli organizzatori degli Internazionali d'Italia avevano in serbo per lui. Due settimane più tardi, nella Parigi del Roland Garros, quell’uno per cento acquisiva ulteriore sostanza: la wildcard Nadal pescava Zverev al primo turno di un sorteggio assassino, giocava probabilmente la miglior partita della sua annata, ma veniva comunque sconfitto tre set a zero. Dopo la stretta di mano col tennista tedesco, la direttrice d’orchestra della logistica del Philippe Chatrier si fiondava in campo e sussurrava a Rafa: “È tutto pronto per te, in questo stadio hai alzato quattordici trofei, dagli spalti ti guardano anche Djokovic, Alcaraz e Swiatek…pigiamo quel pulsante che farà partire scenografie, coreografie e video emozionali?”. Rafa Nadal scuoteva la testa, afferrava il microfono e guardava i suoi sudditi con l’espressione contratta di chi ha ancora le tossine dell’agonismo in circolo: “Ci rivediamo qui a luglio, stesso posto, per le Olimpiadi. Sul 2025 ancora non so dirvi nulla. Merci beaucoup”.
Sino alle finali di Coppa Davis, novembre 2024, Rafa sarà a tutti gli effetti un tennista. Sino a quel giorno avrà senso trattarlo come tale, cercando di accantonare sentenze al miele sulla maestosità della sua leggenda. In parte è un estremo tentativo di procrastinare il pensiero dell’addio, in parte è un atto dovuto a Nadal, quasi dettato dalla sua stessa personalità: rimarremo imperturbabili, perfezionisti e aggrappati alla competizione fino all’ultimo punto, fino a quando il giudice di sedia non ci comunicherà che è davvero finita. Un momento che Rafa ha cercato di spostare sempre più in là, fissando soglie del dolore sempre più acute, limiti di sopportazione sempre più elevati, oltre i quali ha costantemente trovato quell’un per cento di energia sufficiente per convincerlo a restare in campo e consumarsi ancora un po’.
Un gioco al rialzo che, probabilmente, Rafa ha pensato di poter sostenere anche nel 2025. A farglielo credere sono state alcune settimane di allenamento senza patimenti fisici prima delle Olimpiadi, correlate da quattro vittorie di fila all’ATP 250 di Bastad – Svezia – che lo avevano portato a disputare una finale dopo due anni di digiuno: dall’altra parte della rete Nuno Borges, numero 50 del ranking, gli strappava il titolo con un netto 6-3 6-2. Una sconfitta passata in sordina per le dimensioni modeste del torneo, ma lancinante per la fiducia di un Nadal che in riva al Mar Baltico vedeva affondare le buone sensazioni sotto la coltre dell’evidenza: le gambe, al quarto giorno consecutivo in campo, non reggevano nemmeno la spinta della forza di volontà.
Una situazione crudele in cui Nadal è ripiombato pochi giorni dopo, nella sfida più amarcord che il 2024 potesse offrirci, quella con Djokovic al secondo turno di un Roland Garros in formato olimpico, dichiarato obiettivo stagionale di Rafa e Nole. Sotto al sole parigino di fine luglio, lo spagnolo riassaggiava la sua terra spossato dalle tre ore di fatica del giorno precedente con Fucsovics. Nole, fresco e determinato, non ammetteva sconti: 6-1 in un primo set in cui Nadal appariva come una marionetta in balia dei più timidi colpi di vento. Il parziale di 4-0 per Nole nel secondo set – con Rafa spesso bucato dal lato del rovescio, mai incisivo col dritto e sempre limitato al servizio – lasciava presagire un epilogo che sarebbe stato imbarazzante da sopportare persino per un accanito tifoso del serbo.
In quel momento i dubbi frastagliavano la mente dei più convinti fan di Rafa: “Perché esporsi a una figura simile? Che senso ha tutto questo?”. Nel Philippe Chatrier condannato all’immane sofferenza di un pubblico che preferiva voltare le spalle al campo pur di non vedere, Rafa per primo accettava di toccare il fondo. Ma nemmeno qui si arrendeva; sprofondato nel rosso, fagocitato dalla terra che lo ha reso eterno, Nadal riusciva comunque a mettere in piedi una rimonta.
Dal baratro del quattro a zero al punto del quattro pari: difesa alla vecchia maniera con ganci di dritto sferrati a quattro metri dalla linea di fondo campo, un recupero con la racchetta sopra la testa – quasi stile beach tennis – per respingere lo smash nella gola di Djokovic, trapassato da un dritto incrociato che registra una scossa sismica con epicentro a Bois de Boulogne, Parigi. Rafa non ha più fiato per ruggire, Nole è interdetto, tutto intorno un boato inaudito riporta le lancette del tempo all’epoca d’oro del Tennis.
Allora, la fatidica domanda: “Ne è valsa la pena? Era davvero il caso di mostrare tutta quella ruggine, tutta quella sofferenza, rischiando di annebbiare le immagini migliori della propria stroria?”. La risposta è sì, perché il passante inflitto a Djokovic sotto al cielo limpido di Parigi chiude perfettamente il cerchio: il Tennis di Nadal è stato fino alla fine un martirio, costellato di superstizioni e di innumerevoli miracoli protetti dal mistero di una fede, di una passione, di una forza fisica e mentale non di questa terra. A Malaga Rafa Nadal lascerà per l'ultima volta tutto se stesso sul campo, prima di abbandonare definitivamente il Tennis. Solo così poteva riuscirci: bruciando al cento per cento le sue risorse, per regalare al mondo qualcosa di veramente bello. Come una stella.