Causa lavoro e commissioni di famiglia, lo scorso weekend sono stato parecchio in giro. Di conseguenza mi sono fermato spesso al bar per un caffè e qualche minuto di pausa.
Mi dimentico sempre però che non vivo più a Roma e i bar fiorentini sono differenti. Non sono quel genere di bar che – non so se avete presente – da ottobre ad aprile usano il frigorifero dei gelati come leggìo dei quotidiani sportivi e quando vi servono il caffè, vi chiedono se volete “un sorso d’acqua” e poi se percepiscono che dall’altro lato del bancone c’è qualcuno ben disposto a chiacchierare allora è fatta: gettano l’amo sperando che venga raccolto. Spesso si tratta di ami calcistici che prendono forma attraverso una domanda di quelle un po’ vaghe a cui si può rispondere tutto o niente e sulla quale si possono costruire discorsi complessi o veloci. Di solito è: ma insomma, ‘sta Roma? O un più generico, ma stasera te la guardi? Sottintendendo la partita.
Ma non divaghiamo.
Dicevamo che i bar fiorentini non sono i bar romani. Primo perché i caffè costano 20-30 centesimi di euro in più, poi perché l’acqua se la vuoi la chiedi e la paghi. E infine perché c’è un muro di apparente diffidenza che non ti fa entrare in sintonia con il barista-interlocutore che rispetta la non scritta regola della ristorazione: io ti servo e mi faccio gli affari miei, tu consuma e fatti i tuoi.
Ma - l’ho già spoilerato - quella distanza è solo apparente. Si tratta di un muro che in realtà può cadere velocissimo, ma devi essere tu cliente a farlo. Io - che ho quasi quaranta primavere alle spalle - devo dire che ho una tecnica rodata per rompere il ghiaccio in queste situazioni. La chiamo il metodo romano, ma è stato sperimentato con vari adattamenti più o meno in tutta Italia: prendo il caffè, inizio a soffiarci sopra per freddarlo un po’ e senza alzare lo sguardo dalla tazzina lascio partire un secco: ma insomma Chiesa che fa?
Ecco quello che ho scoperto su Federico Chiesa parlando con alcuni baristi tra Firenze e Prato.
Prima di leggere quanto segue urge specificare che questa è una delle classiche situazioni in cui vale la regola dell’innamorato ferito. La ferita Chiesa fa male e brucia nel cuore dei tifosi perché c’era (c’è?) amore. C’era stato un momento in cui i tifosi Viola avevano riposto in lui speranze e desideri. Forte, giovane, appassionato. Praticamente gli ingredienti ideali per una piazza che aspetta di rilanciarsi. E invece no. Se Chiesa parte (e ormai pare davvero sicuro che partirà per Torino, sponda Stadium) la Fiorentina si ritroverà alla terza giornata di campionato a modificare le aspettative e a giocare (sorprese permettendo) un campionato dove sarà considerato un clamoroso successo centrare un posto in Europa League.
Questione di DNA.
Poco fuori dalla Stazione ferroviaria di Santa Maria Novella un barista la mette sulla genetica e sul lignaggio famigliare. E quello che ne esce non è proprio un ritratto lusinghiero per Chiesa figlio (e pure per Chiesa padre): Quando si fallì (stagione 2002 ndr) il suo babbo fece le valigie e andò alla Lazio a prendere i soldi. Oggi il figliolo fa lo stesso. Ma io voglio sentirmelo dire in faccia che lui vuole andare alla Juve. Ma che va a fare poi? Lui è un panchinaro per la Juventus, qui da noi aveva tutto…
Fatalista, ma con principio.
Nella zona dell’Osmannoro, quartiere industriale che sorge accanto all’aeroporto, al confine tra Firenze e Sesto Fiorentino, mi fermo a un bar lungo la strada. Qui sento una frase che avrò sentito mille volte, applicata sui giocatori della Roma. E un po’ mi si stringe il cuore e penso che – pure se non si stanno simpatici – romanisti e fiorentini hanno davvero tanto in comune. I giocatori vanno e vengono. Quella che resta sempre è la maglia. Solo e soltanto la maglia. Però (il però dopo questa premessa era in effetti in agguato) Chiesa così la fa sporca. Se dicesse: “Voglio andare via perché voglio vincere” lo accetterei. Si presenti davanti alle telecamere e dica: “Guardate signori io sono un professionista, mi interessa poco il colore della maglia che indosso e voglio andare a vincere con una squadra che me lo consente”. Ecco questo io lo accetto. Ma lui fa finta di nulla, fa il vago, non parla, e così non si fa…
Il barista talebano.
Secco, laconico che quasi ti fa paura quando incrocia il tuo sguardo. Lo incontro a Prato, in un bar poco fuori le mura cittadine. Non si vince niente con Chiesa e non si vince niente senza Chiesa. Se vuole andare… vada. Non è che se resta si va in Champions o chissà che. Meglio tenere i giocatori motivati. Fine del discorso e in bocca al lupo a lui.
Il cavallo di Troia.
Questa volta è una colazione. Sono abbastanza vicino a casa. Il barista mi serve un cappuccino con caffè caldo e latte freddo senza batter ciglio. Solitamente devo spiegare un paio di volte quello che voglio perché, come mi ha detto non troppo tempo fa Marco Frittella, il giornalista del TG1, il cappuccino freddo lo concepiscono solo a Roma. Prendo anche una pasta e mentre mangio chiedo al barista cosa pensa dell’affaire Chiesa.
Secondo me deve andare alla Juve. È un giocatore forte e deve andare in una squadra forte.
Resto sorpreso e spiazzato da una simile risposta finché non sento la sua collega di bancone che ride mentre serve altri clienti. Poi si intromette e mi dice: Si ma non lo ascoltare, lui è Gobbo. Che ti deve dire?