Quando Goran Ivanisevic è entrato nel team di Novak Djokovic, nel 2019, il serbo stava preparando Wimbledon dopo una durissima sconfitta contro Dominic Thiem al Roland Garros. Era un momento positivo della sua carriera, dopo la grande crisi del 2017 e prima parte del 2018, era tornato ad occupare la prima posizione mondiale, e si presentava a Wimbledon con 3 slam vinti degli ultimi 4 disputati. L’inserimento di Ivanisevic, quindi, sembrava una collaborazione limitata alla stagione sull’erba, e forse, se Federer avesse convertito uno dei due match-point in quella storica finale di Wimbledon, sarebbe andata così. I se e i ma però, lasciano il tempo che trovano, e la storia ci dice che quel torneo ha dato inizio a un sodalizio durato 5 anni, in cui Djokovic ha dominato il circuito, soprattutto negli Slam, vincendone 9 (12 se consideriamo un periodo di collaborazione sporadica), superando così il record detenuto prima da Federer e poi da Nadal.
Durante questi cinque anni, oltre ai successi, ci sono stati anche tanti momenti difficili, alcuni sul campo, altri al di fuori di esso, come la squalifica durante gli US Open 2020, per aver colpito al collo con una pallinata, una giudice di linea, l’esclusione dagli Australian Open 2022 e dai tornei americani dello stesso anno (tra cui lo US Open) e, ovviamente, la sconfitta più dolorosa sul campo, la finale di Wimbledon 2023 contro Alcaraz. In ognuno di questi momenti, Ivanisevic era sempre al fianco di Novak, pronto a rispondere alle sue domande tattiche e tecniche (ebbene sì, anche questi campioni hanno bisogno di consigli di quel tipo ogni tanto) e a subire le urla e i rimproveri, nei suoi momenti di frustrazione.
Il rapporto sembrava così consolidato, che neanche il momento difficile, che sta affrontando adesso Nole, fisiologico per un giocatore di quasi 37 anni, pareva poterlo incrinare. Invece, un po’ a sorpresa, i due hanno preferito separare le proprie strade, come annunciato pochi giorni fa, attraverso un post Instagram, dal serbo. La separazione tra Djokovic e Ivanisevic è chiaramente la più eclatante, perché riguarda il numero 1 del mondo, ma non è stata l’unica degli ultimi mesi. Rune, nel mezzo di un’enorme crisi, ha cambiato, in pochissimi mesi, diversi allenatori, per poi tornare dal suo mentore Mouratoglou. Berrettini, dopo tanti anni, ha terminato la sua collaborazione con Santopadre, iniziando a lavorare con Francisco Roig. Anche Lorenzo Sonego, dopo un ventennio, si è separato da Gipo Arbino, molto più di un allenatore, praticamente un secondo padre per l’italiano.
Per fare un passo indietro, anche i finalisti di Miami, Sinner e Dimitrov hanno cambiato l’allenatore (il bulgaro ben più di uno) durante la loro carriera. Ok, ma come mai questo avviene? Perché un tennista sente la necessità di cambiare allenatore? Per una buona parte di tennisti, cambiare allenatore vuol dire provare sensazioni diverse, le collaborazioni, che siano positive o negative, hanno un ciclo (ovviamente più o meno lungo), che termina quando il giocatore o l’allenatore (o entrambi) si rendono conto di non poter più dare nulla l’uno a l’altro; il metodo di lavoro inizia a diventare ripetitivo, il giocatore sente di non poter più migliorare sotto quella guida tecnica e di aver bisogno di cambiare, per fare uno step successivo nella propria carriera. Le separazioni di Sinner da Piatti e di Sonego da Arbino possono essere viste da questo punto di vista, non ci sono stati litigi o particolari incomprensioni, semplicemente i due giocatori ritenevano di aver bisogno di nuovi metodi di lavoro per raggiungere la nuova dimensione della loro carriera. Sinner, ovviamente, rappresenta l’esempio perfetto di questa visione, passando da Piatti al duo Vagnozzi-Cahill, l’italiano ha completato il suo percorso di crescita, diventando il giocatore più forte del mondo. Il lavoro con Piatti è stato importante, fondamentale, ha portato Sinner tra i primi dieci giocatori del mondo, ma per compiere il passo successivo, evidentemente, c’era bisogno di cambiare qualcosa, di costruire su quella base e aggiungere tasselli, lavoro possibile solo con la nuova guida tecnica.
Un’altra motivazione, che riguarda i giocatori con un po’ di anni sul circuito ed esperienza alle spalle, è quella di cambiare allenatore per ritrovare fiducia e rimettersi in gioco. Dimitrov, Berrettini e, anche se molto giovane, Rune, stavano e (tranne Dimitrov) stanno affrontando un momento difficile, dove la fiducia, per motivi diversi, è ai minimi. In questa situazione, affidarsi ad un nuovo allenatore è da leggere come la speranza di ritrovare, attraverso nuovi metodi di lavoro e aspetti nuovi su cui lavorare, la fiducia persa. In una recente conferenza stampa, Berrettini ha detto che da quando lavora con Roig si respira un’aria nuova agli allenamenti, questo perché lavorare con un allenatore che non era con te durante la crisi e gli infortuni, può aiutarti a dimenticarli e a vedere le cose con un’altra prospettiva. Dimitrov, affidandosi a Jamie Delgado (ex allenatore di Murray), sta vivendo una seconda giovinezza, dopo anni veramente bui, il britannico ha lavorato sulla testa del giocatore bulgaro, facendogli ritrovare la fiducia persa e di conseguenza, tutti i suoi meravigliosi colpi.
Cambiare allenatore, quindi, permette anche di resettare e ripartire da zero, per ricostruire, attraverso nuovi stimoli e sensazioni, la propria fiducia. Infine, ma questo è un caso particolare, che riguarda pochi tennisti, cambiare allenatore può significare cercare di trovare nuovi stimoli, che ti aiutino a trovare entusiasmo per gli ultimi anni di carriera. Federer quando iniziò a collaborare con Ljubicic, aveva già 34 anni e aveva bisogno di trovare nuovi stimoli, non solo mentali, ma anche tecnici e tattici, per continuare la propria carriera; Nadal quando ha affiancato Moya a suo zio Toni, aveva 31 anni e parlò di “ventata di aria fresca”. Lo stesso Djokovic ha spiegato di aver iniziato a collaborare con Ivanisevic, per aggiungere “un po’ di magia” al suo team. Continuare ad imparare e a cercare di migliorarsi per allungare la propria carriera, è uno dei segreti dei grandi campioni, così longevi.
Cambiare allenatore, quindi, è un estremo tentativo di cercare qualcosa di nuovo, ritrovare le sensazioni di sempre resettando tutto. Sembra una contraddizione, ma in realtà c’è una certa logica in questo ragionamento. E così, i coach vengono ringraziati su instagram e salutati con il più classico dei “non sei te, sono io”, e tutto è bene quel che finisce bene, l’importante è che finisca.