Mancavano tre giri alla fine della SuperSport 300, a Jerez, quando un incidente ha tolto la vita a Dean Berta Vinales, 15 anni appena. La famiglia è la stessa di Maverick e di Isaac Vinales, anche loro piloti, ma poco importa. La dinamica, tristemente nota, è la stessa che solo qualche mese fa ha visto protagonista il povero Jason Dupasquier. La stessa di tanti altri, terribile perché inevitabile. Perché non si può dare la colpa alla moto, al pilota o al circuito. La colpa è solo del motorsport che - lo scrivono sui pass di ogni paddock - è pericoloso. Motorsport is dangerous.
Ogni volta si cerca una nuova regola o un modo diverso di fare le cose, la verità però è che non c’è. Le moto della SuperSport 300 non sono pesanti, il circuito è da mondiale. Rimettere l’erba al posto dell’asfalto non avrebbe cambiato le cose. Il motorsport è pericoloso ma, fino ad un attimo prima della tragedia, non è altro che un valore aggiunto. È un affare per chi ha messo la passione davanti alla sicurezza per vivere un sogno da ragazzini. Arrivare prima degli altri, andare forte, vincere. Piegare, impennare, accucciarsi nel cupolino di un missile in metallo mentre la benzina che sbatte nel serbatoio, solo una tuta colorata addosso. Il motorsport è roba da ragazzini che fa godere un mondo, muove i soldi e scrive una storia sua. Ed è quasi sempre gioia, a volte persino poesia. Ma nel motorsport si muore e questo cambia tutto, perché quando guardi una gara non sei allo stadio e nemmeno alle olimpiadi.
Stai assistendo ad una delle ultime testimonianze di una scelta di vita sempre più rara, proibita, una vita che esiste da quando l’uomo è una bestia. C’era prima del politicamente corretto e dei macchinari che tengono in vita le persone. Il motociclismo non è bello perché i ragazzi muoiono, è bello perché è vero e non accetta compromessi. Il cronometro è uguale per tutti, la pista anche. E tutti, dal primo all’ultimo, rischiano la vita per correre in moto. Tutti, dal primo all’ultimo, possono morire in pista. Anche se hai 15 anni e non hai nemmeno fatto in tempo a lasciare la scuola per vivere di motori.
Dean Vinales faceva il pilota, probabilmente il lavoro più bello che esista. E dobbiamo ricordarci, quando vediamo le moto in pista, che loro stanno credendo in qualcosa che nel mondo di oggi non esiste più. Rischiano la vita per passione, la loro e quella dei genitori, e sono liberi di farlo. Ormai è una cosa per pochi.
Lui è morto troppo giovane e senza averne colpa. Ma è morto un po’ più libero di noi per ricordarci che il motorsport è figlio di puttana.