L’Italia non è solo uno Stato, ma uno stato confusionale. La battuta è stata sentita qualche anno fa in un salotto politico, ma a noi della politica importa poco e, allora, la prendiamo in prestito per sintetizzare la situazione sportiva in casa Ferrari e Ducati.
Due reparti corse, due motorsport differenti, diverse proprietà, ma una comune tradizione, stesso colore e, a quanto pare, anche stesso modo di pianificare: emotivo e sotto i riflettori. La vecchia regola del "quello che succede dentro lo spogliatoio deve restare nello spogliatoio" sembra non valere per i due team più rappresentativi del motorsport nostrano.
L’ultima in casa Ducati? È fresca di oggi: Dovizioso ci sarà, ma ci sarà anche Pirro se Dovizioso non dovesse esserci. Ma che diavolo significa? Semplicemente che il team si copre le spalle nell’eventualità che quella di Dovi, di spalla, dovesse fare i capricci visti gli stretti tempi di recupero. Una cosa normalissima che detta così, però, suona di confusione totale. E in Ducati in questo sono maestri.
Potremmo scomodare il passato e l’atteggiamento di Ducati che sembra sempre muovere dal principio dell’egemonia del mezzo e del marchio sul talento dei piloti. Ma apriremmo un capitolo infinito. Per rendersene conto, invece, basta buttare un occhio sulla storia recente del mercato piloti della rossa. Un mercato che a Borgo Panigale era cominciato con una certezza: Andrea Dovizioso. E che ora sta proseguendo senza più neanche quella certezza. Perché nel frattempo il forlivese è finito nel tritacarne della confusione. Ne sa qualcosa anche Danilo Petrucci, uno che a Ducati avrebbe giurato eterna fedeltà e che, invece, è finito in discussione prima ancora di poter dimostrare di essere all’altezza. Al suo posto arriverà Jack Miller a cui, però, devono ancora far sapere se sarà prima guida o seconda. Nel mezzo ci sono il contratto da rinnovare a Pecco Bagnaia, di cui non si parla più da qualche settimana, le insistenze di Zarco che pretende fiducia e gli ammiccamenti, sempre meno velati, di Jorge Lorenzo che vuole tornare a tutti i costi in sella. Sì, lo stesso Jorge Lorenzo che Ducati aveva lasciato andare proprio mentre cominciava a vincere. In tutto questo scenario, già abbastanza complesso, Ducati che fa? Mette un’opzione sul giovanissimo Martin. Risultato? Tutti scontenti e mal di pancia a destra e sinistra, con i tifosi che si ritrovano ancora una volta a fare i conti con una confusione imbarazzante.
La Ferrari invece in Formula 1 è come uno di quelli che al ristorante ordinano il primo scegliendo il meglio del meglio dal menù e poi si sfamano solo con quello. Del secondo non gli interessa, non gli è mai interessato. La gestione piloti, a Maranello, è un pranzo al ristorante che sa sempre di qualcosa lasciato a metà.
Quando in Ferrari hanno scelto Vettel - appiedando un Alonso che ormai non sopportava più niente e nessuno - era lui l’uomo su cui puntare: tedesco, innamorato da sempre della Rossa, quattro volte campione del mondo. Il meglio del meglio sul menù. Avevano deciso che sarebbe diventato il prossimo Schumacher e quando la fantasia di un popolo passionale e romantico non si è realizzata, non hanno saputo gestire la situazione.
Anche perché alle spalle di Vettel, come un secondo non ordinato per pigrizia e taccagneria, c’era un Kimi Raikkonen ormai poco prestazione in pista. Tutti amiamo Raikkonen, guai a chi dice il contrario, ma il suo ruolo era quello che la Ferrari aveva deciso per lui: secondo pilota, alle spalle di un forse mai davvero convincente Sebastian Vettel. E mentre in Mercedes, dopo il colossale disastro del 2017 con Hamilton-Rosberg, il gioco delle parti si è delineato (con Bottas gregario silenzioso di un campionissimo assoluto) in Ferrari il rebus piloti è sempre contorto, mal gestito, disastroso.
L’immagine per eccellenza di questo dramma è l’incidente in partenza tra Vettel e Raikkonen a Singapore 2017: una doppietta assicurata mandata in fumo da una mancanza di comunicazione interna. Alla vigilia di quel Gp infatti non fu mai fatto un briefing per decidere chi sarebbe dovuto passare e chi invece avrebbe preso la seconda posizione. La Ferrari lasciò tutto così, come quando tra amici non si mette d’accordo su chi deve prenotare al ristorante e poi non si trova posto da nessuna parte. Risultato? Un disastro tutto italiano ripetuto a Interlagos 2019 con l’accoppiata Vettel-Leclerc che dà il via a una nuova pessima gestione piloti.
E poi c’è la scelta di annunciare l’addio di Vettel con un preavviso lungo un’intera stagione, rischiando così l’ennesimo disastro in pista con un secondo pilota che non accetterà mai e poi mai di lasciare passare il suo compagno di squadra.
Una gestione tutta italiana che accomuna le rosse del motorsport prendendosi l’anima - con passione, emotività, speranza - e che restituisce un melodramma solo nostro. Anche nelle vittorie, come nelle sconfitte, bisogna sempre soffrire, bisogna trovare un cattivo a cui dare la colpa per poi santificare il buono, bisogna trovare la strada più complicata per arrivare a una sudatissima (quando arriva) gioia finale.
I musi lunghi, le pubbliche tirate d’orecchie ai piloti, la disorganizzazione, l’Inno di Mameli sempre urlato e sempre fuori tempo. Ferrari e Ducati sono italiane ed essere italiani è anche questo: lo Stato confusionale di un popolo che - anche nell’eccellenza dello sport - non smette mai di essere quello che è.