Nella stessa squadra, per lo stesso obiettivo: Cristiano Ronaldo e Lionel Messi si sono rincorsi a lungo, dividendo gli appassionati e i tifosi in due schieramenti irriducibili, ma ora giocano insieme. La maglia è quella dei petrodollari dell’Arabia Saudita, dalla quale entrambi si sono lasciati comprare (certo a carissimo prezzo): il traguardo nemmeno tanto nascosto è quello dei Mondiali del 2030, che evidentemente non li vedranno scendere in campo, ma che CR7 e Leo faranno di tutto affinché possano essere assegnati proprio ai sauditi.
Diverse le modalità, del tutto simile lo stile: se per quanto riguarda Cristiano Ronaldo l’accordo – stando alle cifre pubblicate dai media – prevede prima un paio di stagioni in campo con l’Al-Nassr, quindi cinque anni da testimonial del calcio saudita per un totale di un miliardo di euro di qui al 2030, le cifre dell’accordo con Messi – firmato a maggio – non sono state rese note, ma sono comunque sufficientemente oscene e, nel suo caso, il ruolo è quello di promotore del turismo in Arabia Saudita. Non di ambasciatore per il Mondiale 2030 ma, come ha notato in un articolo di novembre la testata statunitense The Athletic, si tratta per lui di promuovere lo Stato; ciò a cui punta l’Arabia Saudita è una sorta di replica di quanto è riuscito al Qatar, ed è logico che, con un committente del genere, Messi non potrà non essere anche uno strumento per convincere la Fifa, visto che l’assegnazione avverrà nel 2024, a contratto in corso. Nulla di nuovo: la Saudi Vision 2030, il documento programmatico su come si vede il Paese nel futuro, era stata annunciata nel 2016, e nel programma di trasformazione nazionale il settore dell’intrattenimento, e dunque dello sport, riveste un peso decisamente rilevante. Avere portato in loco le supercoppe calcistiche di Spagna e Italia e la Formula 1, avere concretizzato l’acquisto del Newcastle United e avere finanziato il nuovo e opulento circuito del golf professionistico (Liv) sono mosse facenti parte di una strategia chiara, che solo l’assegnazione di un grandissimo evento come un Mondiale e un’Olimpiade può concludere.
In sé, senza nemmeno fare moralismi per cifre indecenti, non ci sarebbe e non c’è nemmeno nulla di male: come il Qatar si è comprato la Fifa, così l’Arabia Saudita ha fatto con Ronaldo e Messi, ed è singolare come le prime immagini del portoghese con la maglia dell’Al-Nassr e le prime di Messi come promoter del turismo dei ricchi attraverso le sue genuine scelte paesaggistiche (con le sponsorizzate che da alcuni giorni invadono i social di Meta, abbastanza ridicole), siano sostanzialmente contemporanee. Il battage pubblicitario è iniziato e nel prossimo anno e mezzo i due saranno fianco a fianco.
Eppure c’è qualcosa che stona, e che riguarda principalmente l’idea di eroi del popolo argentino e portoghese attraverso la quale gli aedi dipingono Messi e Ronaldo, che sono al contrario due formidabili imprenditori di sé stessi, al soldo di chi li strapaga e ligi al dovere. Già, perché tra le candidate a organizzare i Mondiali 2030 (quelli del centenario) ci sono proprio l’Argentina, congiuntamente a Uruguay, Paraguay e Cile, e pure il Portogallo, che concorrerà insieme a Spagna e Ucraina. Ma il capitano dell’Albiceleste campione del mondo nel 2022 e il fuoriclasse dei record del calcio portoghese non potranno supportare i comitati organizzatori con la loro immagine, perché saranno entrambi sotto contratto con l’Arabia Saudita pronta a confermare una singolarissima candidatura triconfederale assieme a Egitto e Grecia.
Sarà così impossibile, di qui al giorno dell’assegnazione, replicare ciò che accadde nel 2017, prima di una gara tra Uruguay e Argentina, quando i due capitani Suarez e Messi (meglio, le rispettive federazioni) prepararono a favore di telecamere e fotografi un’immagine creata apposta per fare campagna sulla candidatura 2030, abbracciandosi al centro del campo, l’uno accanto all’altro con indosso il primo la divisa della Celeste sulla quale figurava un enorme 20, il secondo quella argentina con il 30 in bella mostra. Scatti, clic, baci e sorrisi, ma allora il fondo Pif non aveva ancora aperto i cordoni della borsa per il sette volte Pallone d’oro. Il bisht che è stato costretto a indossare nel sommo momento della premiazione in Qatar, in fondo, è davvero l’ultimo degli aspetti sui quali fare polemica.