Il mondiale delle polemiche è finito. Ovviamente con una polemica. Dopo una partita che alcuni hanno definito tra le più belle finali di sempre, ecco una nuova ondata di indignazione per il mantello pregiato che l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, con il benestare del boss della Fifa Gianni Infantino, ha posto sulle spalle di Lionel Messi prima della tradizionale alzata della coppa al cielo. Un gesto che non è piaciuto ed è stato definito inaccettabile, perché sembrerebbe simboleggiare il potere del Qatar su questo mondiale, comprato a suon di soldi. Il “bisht”, questo il nome dell’indumento, è un accessorio tipico dei Paesi del Golfo Persico, usato come segno di ricchezza e prestigio, e indossato anche dalla famiglia reale.
Quasi un’incoronazione del numero 10 dell’Argentina. Apriti cielo. Ennesimo schiaffo alla democrazia e al rispetto dei diritti, a favore di una sudditanza neanche velata verso un potere autoritario e antiumanitario. La mantellina della discordia insieme all’ingaggio del calciatore come volto di Vision 2030, il programma per il turismo in Arabia Saudita, sarebbero l’unica nota stonata in questo momento storico del calciatore che, da ieri, ha conquistato anche l’ultimo risultato che gli mancava in carriera, la coppa del mondo.
Che questo mondiale sia stato interamente espressione di subordinazione nei confronti del Qatar, un Paese su cui vi sarebbe molto da dire a partire dalle analisi sulla Goal economy di Marco Bellinazzo, è chiaro; ma fa specie notare come la polemica si sia innescata ripetutamente per via delle simpatie “contrattuali” della Pulce, più volte paragonato a Maradona, ma raramente nel caso in cui si dovessero ricordare le amicizie e gli incarichi che il Pibe de Oro intrattenne durante l’arco della sua intera carriera. Come se vi sia un unico “peccatore”, Messi.
Eppure Maradona ha indossato gli abiti di uno Stato come gli Emirati Arabi, e da loro ha accettato soldi e un jet privato come benefit, scegliendo di sedere in panchina prima con l’Al-Wasl di Dubai nel 2011 e poi con l’Al-Fujairan nel 2017. Lui, amico di Fidel Castro (ed espressione massima di comunista con il rolex, anche se intoccabile per via della santità calcistica). Proprio lui, evocato nelle agiografie televisive come evento unico nel mondo del calcio di cui sembra sia bene ricordare solo il talento acrobatico e il genio coreografo, a spese delle contraddizioni che, quand’anche evocata, lo rendono più un soggetto per Sorrentino che non un nome che sia possibile criticare.
Vogliamo parlare della foto in stile Sirenetta di Maradona nella vasca a forma di Ostrica insieme ai fratelli Giuliano di Forcella, re della Napoli criminale degli anni Ottanta? Una conoscenza amichevole e buoni rapporti che il campione non aveva mai negato e di cui non si pentì mai. Non solo. Dopo l'esperienza araba pensò di spostarsi in Messico e diventare allenatore dei Dorados de Sinaloa, nel cuore dei territori del narcotraffico nel regno del Cartello di Sinaloa, forse il più pericoloso e vasto al mondo. Non che Maradona facesse parte di alcun cartello, ma dal momento che si chiede sempre di più alle star di prendere le distanze da qualsiasi cosa, dagli sponsor poco green al vicino che usa una frase omofoba o maschilista, perché non si dovrebbe ricordare che Diego si mosse nella direzione opposta, ovvero accorciando, fisicamente, le distanze fino a prestare i suoi servizi (e la sua immagine e fama) a un territorio avvelenato dalla droga?
I più dubitano che, dopo l’entusiasmo iniziale, si possa davvero continuare a identificare Leo Messi con Diego Armando Maradona. Nonostante questo, forse qualcosa in comune ce l’hanno, l’amore per i soldi e, d’ora in poi, anche una bella mantellina per i giorni più freddi e più bui, con buona pace per i “maradoneti” dalla memoria selettiva convinti che Maradona non avrebbe mai coperto la maglia della sua nazionale con un indumento qatariota, nonostante abbia dimostrato in più occasioni di saper coprire adeguatamente il suo habitus morale, con una bella coperta di sghei.