Largo all’avanguardia, pubblico di merda. Qui merda lo posso scrivere e non verrò bannato per un altro mese dal social del signor “Montagna di M*rda di Zucchero” che ormai costringe miliardi di utenti a criptare con asterischi, anagrammi e metafore nomi, verbi e sostantivi per sfuggire all’idiozia delatrice dell’algoritmo. Ribadisco: largo all’avanguardia, pubblico di merda! Che intanto quattro italiani su dieci - stando all’identikit elettorale di questo Paese a forma di scarpa - non coglieranno la mia citazione. Premettendo che sono mezzo argentino, da parte di madre, ma che tengo per la Vecchia Europa continentale - che quindi esclude la Perfida Albione che ha già dato il meglio coi Beatles, i Sex Pistols, i rave a Stonehenge - nasce il Movimento di Beatificazione per Lele Adani: lo fondo ora nel mio monolocale, nella consapevolezza che lui mi copra di soldi e vanti quei capelli che ho perso da decenni e giochi a padel tutto il giorno con Bobo Vieri e Ventola, probabilmente senza neanche pagare perché Vip, privilegiato e tutto il resto.
E quindi vuol dire che almeno non sono un invidioso, come quei quattro italiani su dieci, haters che in fase digestiva - dietro l’anonimato di un nick da film fantasy - scaricano la bile del loro fallimento contro chiunque nella vita sia riuscito a combinare qualcosa e guadagnarci tanto vile danaro. Ricordo a quei miei simili, assillati dalla paura dell’abisso bancario - come il sottoscritto - che il buon Lele non è un influencer che ha fatto il botto, mostrando i suoi completini e le tette. La statistica parla chiaro: lui è parte dell’1% di quei miliardi di ragazzini che ogni anno si danno al gioco del calcio in un buco di culo di provincia e che - per abnegazione e doti genetiche - riescono nell’ardua realizzazione del loro sogno narrante. Perché lui almeno è arrivato a giocare in serie A e pure in Nazionale, quindi un pluri-laureato, persona competente nell’arte della pedata. E ce ne fossero. Certamente un esaltato, ma per nostra fortuna e alla faccia dei benpensanti e fini dicitori che si ergono in difesa della neutralità del pubblico servizio e che da lui pretenderebbero esemplare imparzialità. Quando da troppi anni assistiamo, in vergognoso silenzio e complicità, allo scempio delle nostre tribune politiche, prive di contraddittorio e deontologia, asservite da giornalisti schierati coi nei pelosi, rockstar della propaganda per prepotenti in ascesa e le loro cordate di leccaculo e portaborse di partito.
Ben venga dunque Lele Adani che svacca, che ha garra, che bacia la bandiera argentina - visto che lui da calciatore era in combutta con suo fratello Almeyda e gli altri sudamericani - e che senza assumere mescalina azzarda metafore Messianiche sui cammelli e Maradona che gioca da lassù. Qual è il problema? Quei quattro italiani su dieci sono così nazionalisti e ottusi, da pretendere che un professionista della divagazione sul calcio, nato in Italia, si inginocchi solo a idoli nostrani? In una epoca sempre più globalizzata la giocata di Messi, Amrabat o Mbappé appartiene a tutti, perlomeno a coloro che ormai si accontentano delle emozioni tratte da una fottuta partita di calcio, di cui parlare per almeno tre giorni, prima di tornare al silenzio della consueta e paludosa routine, priva di impulsi emotivi endogeni. E adesso che il Lele Adani è stato defenestrato dalla finale, per dare spazio al compostissimo soporifero ancien régime, mettete le sveglie dopo i supplementari e la cosiddetta lotteria dei rigori.