È lunedì 15 gennaio e mancano quattro tappe alla fine della Dakar quando, nel bivacco di Ha’ll, si sparge la notizia della morte di Carles Falcon, che correva nella Malle Moto - la categoria riservata a chi affronta il rally senza assistenza - e che nella seconda tappa aveva riportato gravissime ferite in seguito a una violenta caduta: cinque costole rotte, frattura alla vertebra C2, polso sinistro, clavicola, edema cerebrale, arresto cardiaco. I medici hanno indotto il coma farmacologico e da lì le sue condizioni sono solo peggiorate, fino a quando il Twin Trail Racing Team ha diramato un breve comunicato stampa per annunciarne la scomparsa. Aveva 45 anni. È la Dakar, i piloti lo sanno. Alla Dakar si muore. Lo sa chi la conosce da sempre e anche chi è alla sua prima volta, come Gioele Meoni - figlio di Fabrizio, scomparso in gara nel 2005 - che è volato in Arabia Saudita per trovare l’amore che il padre metteva in questa corsa. Nella Malle Moto sono rimasti in 22, Gioele (5°, nonché 46° assoluto) è il primo degli italiani. Paolo Lucci, di Castiglion Fiorentino come i Meoni, si è dovuto ritirare, gli altri italiani sono Cesare Zacchetti (con una Kove, un nuovo progetto cinese) e Tiziano Internò, che racconta la Dakar tramite i profili social @rally.pov. Lui saluta così Falcon: “Proprio mentre chiudevo la mia cassa mi è arrivata dai ragazzi la notizia della morte di Carles Falcon, pilota #135 della Malle Moto. Ho sfiorato l’anima di Carles proprio al km 448 dello Stage 2 mentre i medici provavano a rianimarlo e, anche se non lo conoscevo, mi piace ricordarlo come un appassionato che stava vivendo il Sogno più grande per ogni motociclista. C’è dolore ovvio, proprio per “il filo invisibile che ci unisce”, ma avere Fede significa proprio essere incontrovertibilmente certi che qualunque cosa ci accada sia la migliore per la nostra Evoluzione, anche quando questo porta alla morte del nostro corpo…di una parte di “noi”. Ciao Carles, ti porterò con me in ogni km di questa Dakar in attesa di poterti conoscere in un altro giro di giostra”.
La Dakar è tutta qui, in queste parole senza retorica. Parole che ti arrivano addosso perché sono vere, un po’ come fossero previsioni del tempo. La Dakar è l’unica corsa al mondo in cui provare, almeno un po’, le sensazioni di chi seguiva il motorsport negli anni Settanta, quando di telecamere a inquadrare il circuito ce n’erano tre o quattro: vedi qualche immagine, qualche aggiornamento, ma la maggior parte delle cose te le devi immaginare. Chi la corre sa che le notizie ti arrivano così, in un momento qualunque della tua giornata. Puoi rompere il motore e ritrovarti a piedi, oppure in attesa di un elicottero con un piede maciullato da una pietra nascosta. Puoi scoprire che il tuo primo avversario si è perso per un’ora e mezzo nel nulla e che adesso davanti ci sei tu. E puoi venire a sapere, mentre chiudi la cassa in cui tieni tutta la tua roba, che un altro pilota se n’è andato. Alla Dakar si aiutano tutti perché sanno che il momento in cui questo aiuto verrà ricambiato sarà un momento pieno, puro. Tiziano dice che c’è un filo invisibile a unire i piloti del Rally. Anche in un mondo così, fatto di storytelling ed esaltazione della realtà, non si fa fatica a credergli, che poi è il motivo per cui gente come Carles correva questa gara. Da solo, incontrando di tanto in tanto altri uomini e donne come lui e condividendo con loro un pezzettino di strada. Italo Calvino l’ha spiegato bene ne Le Città Invisibili: “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Questo ti offre la Dakar. In cambio però, vuole tutto.