Capita, in alcune foto da piccoli, di essere immortalati accanto a oggetti che rappresentano un destino, una promessa, la prima scintilla di una passione. Ricordo ancora una macchina di sabbia con tanto di volante e cambio fatto con i legni di mare. Un sorriso stampato sul volto, io alla guida, accanto i miei fratelli Andrea e Paola, lanciati verso mille avventure allora solo immaginate. Perché la vita la puoi correre da solo o insieme. Io ho scelto di farla con delle folli e colorate carovane: dal mondo sofisticato, tecnologico e glamour della Formula Uno, alla MotoGP dove i piloti, si sfidano a 300 km all’ora su due ruote protetti da un sottile strato di pelle, ed infine la Dakar, la corsa più estrema al mondo dove arrivare alla fine è già un successo.
A spingermi il desiderio di viaggiare e la curiosità per gli abissi della natura umana. Dal Natale del 2011 trascorso a Buenos Aires, ballando tango a La Catedral o La Viruta, non me ne sono persa una. Giornalista freelance per le principali testate (La Gazzetta dello Sport, Cycle World, motorsport.com, Il Giornale e adesso anche MOW), mi sono fatta la gavetta perché la Dakar la devi semplicemente vivere.
Un’esperienza che cambia la vita
Nessuno torna uguale da una Dakar. L’ho imparato subito. Questa corsa nomade che ti porta a percorrere più di 7000 km in due settimane (quasi 8000 per i piloti) ti obbliga ad una sorta di ritorno alle origini: alla pura sopravvivenza. È il deserto a dettare le regole: lascia a casa il superfluo, viaggia leggero, dormi, mangia e bevi quando puoi perché non sai cosa ti riserverà la giornata, sii sempre gentile e aiuta chi è in difficoltà perché potresti avere bisogno anche tu.Tra le lezioni di vita più belle, quella di Jacky Ickx. Una confessione da pelle d’oca durante un pranzo al bivacco della Dakar edizione 2021. «Credo che la Dakar resti la più bella avventura individuale che ci sia. Nessuno torna mai uguale da una corsa come questa. Se hai il coraggio di abbracciarla in pieno e di vedere oltre, si torna più sensibili e meno stupidi, consapevoli che la vita è molto più grande della piccola bolla in cui spesso viviamo». Mi fece venire i brividi perché è esattamente così, fedele a come l’aveva ideata Thierry Sabine nonostante l’evoluzione tecnologica e il maggior comfort dei tempi moderni.
Nel nome di Thierry Sabine
Thierry resta un faro per i 770 concorrenti come competono la 46esima della Dakar 2024 ma anche dei meccanici e giornalisti a seguito. Semplicemente perché ha immaginato qualcosa che non c’era e ha avuto il coraggio di realizzarlo e condividerlo con gli altri, animati come lui dalla stessa passione e un pizzico di follia. È questa la linea sottile che divide un uomo di successo da un grande leader. Mister Ford non avrebbe costruito un impero, se avesse costruito solo pochi esemplari per sé e parenti stretti.
Ma cosa rendeva e rende ancora oggi Sabine una leggenda? “Era un leader. Si comportava come un grande generale d’armata e noi eravamo la sua truppa di avventurieri. Anche l’abito tradiva questa sua passione: era sempre vestito di bianco, indossava una giacca tipo aviatore. Negli anni prese poi il soprannome di “dio”, perché sorvegliava la corsa dall’alto del suo elicottero bianco, portava la barba”, mi raccontò un giorno Hubert Auriol. Partito ragazzo e torno uomo da quella prima Dakar del ’78. Da allora la corsa africana è diventata la sua vita.
Sabine era bello, coraggioso, un Gesù dei tempi moderni dal fascino irresistibile dei grandi condottieri. L’uomo che vorresti avere accanto. “Ha cambiato la vita di tantissima gente", le parole che gli ha dedicato Jacky Ickx. "La Paris-Dakar è sempre stata un sogno: una sfida incredibile per chi la vive e qualcosa di irraggiungibile per chi resta a casa. Ma è molto, molto di più. Thierry ha insegnato ad alzare lo sguardo, a guardare oltre e a vedere le persone dimenticate. Se sei capace di vedere gli invisibili, allora la tua mente si apre. Percepisci che c’è un mondo più grande al di fuori dei binari prestabiliti. La vita è molto di più. Quando si correva in Africa nel deserto del Teneré, questo era evidente. Abbiamo passato nottate nel deserto, mangiato sabbia. Se uno aveva l’abitudine di volare un po’ troppo in alto, beh la durezza della corsa ti riportava con i piedi per terra. Non potevi più ingannare te stesso".
Polvere, sabbia e sofferenza
C’è una storia incredibile dietro ad ogni decisione di correre la Dakar. L’impresa è talmente estrema oltre che costosa che ci deve essere sempre un buon motivo per farla. Lo puoi chiamare sogno, sfida personale o rivincita.
C’è chi ha dovuto vendere tutto per cominciare da privato, come Skyler Howes, oggi pilota ufficiale del team Monster Energy Honda. “Guidare otto ore al giorno non mi pesa, mentre la sveglia alle 4:00, i 2-300 km di trasferimento al mattino con il freddo quando è ancora buio e ancora mettere insieme il budget per la Dakar da privato senza averlo, questo sì che è fuori dalla mia comfort zone”.
Per Mason Klein, questa Dakar doveva essere una rivincita. Lo avevo lasciato anno scorso al bivacco marathon di Shaybah. Californiano, Mason era stato la vera rivelazione della Dakar 2022, quando all'età di 21 anni aveva debuttato chiudendo nono assoluto e al primo posto tra i debuttanti. Nel 2023 aveva sorpreso i veterani vincendo la tappa 2, una delle speciali più impegnative dell'intero rally, con 430 km di rocce e pietre. Da quel momento era sulla bocca di tutti. Era costantemente nella Top 10 prima di subire un grave incidente durante la tappa 9. Aveva perso conoscenza ma appena riaperto gli occhi si era rimesso alla guida della sua KTM ed era volato via, inghiottito nell’immensità delle piste saudite, a gas spalancato fino a centrare pieno uno sfortunato Adrien van Beveren a pochi chilometri dalla fine della speciale. Al bivacco la rivolta tra gli altri piloti: Mason è pericoloso. Tra l’altro soffre di un disturbo da deficit di attenzione per cui deve prendere delle medicine. Nonostante il dolore e le polemiche aveva continuato la sua corsa. Sette,otto ore sulla moto ogni giorno nelle alte dune nel deserto dell’Empty Quarter fino alla tappa marathon. "Solo io posso decidere se sono in grado di guidare. Ma non so cosa fare. Mi fa male il cervello". C'è una linea sottile tra il desiderio arrivare al traguardo e il limite fisico di sofferenza. Perché il corpo ha una memoria e alla fine, colpo dopo colpo, dice stop.
Solo e isolato dal resto del branco, Mason si è chiuso. “Voglio solo riposare”. La mattina dopo non è partito.
Quest’anno è tornato in sella ad una moto cinese, la Kove, che costa 15.000 euro. Niente in confronto ai 35 mila di una KTM con il kit per il rally. terzo la seconda tappa, tutti si aspettavano l’impresa. Invece il giorno seguente è sprofondato 117°. Alla tappa 3, la marathon, ha rotto il motore, ma non si è arreso. Si è fatto trascinare fino al bivacco e si è preso il massimo della penalità pur di ripartire. La quarta tappa l'ha chiusa 99°.
La vittoria è un risultato di squadra
A volte è proprio così la crescita avviene fuori dalla zona di comfort e la vittoria è un risultato di squadra. L’americano Ricky Brabec si è tatuato un’ancora in fondo agli abissi del mare con tanto di scritta “Sinking is not an option”, tradotto “affondare non è un’opzione”, e poi il tuareg della Dakar. Dalla polvere alle stelle. Nel 2019 Brabec aveva stupito tutti per forza e consistenza. Stava guidando la classifica generale, quando il motore della sua Honda CRF450 Rally si era ammutolito all'ottava tappa. "Il mio sogno di diventare il primo americano a vincere la Dakar era finito nella polvere. Avrei voluto piangere, urlare nel casco, ma ero solo nel deserto. Sono stato costretto a rimanere calmo". È stata dura digerire la delusione. Si è dovuto isolare, ritrovare la benzina che lo faceva saltare in moto ogni mattina per allenarsi. Poi, poco a poco, ha ricominciato a sognare. “Si impara dagli errori e si guarda avanti, mai mollare: sinking is not an option. Nel 2020 è stato il primo americano a vincere una Dakar. “Non si vince mai da soli, è un risultato di squadra”. Aveva dovuto ricostruirsi un mondo e circondarsi di persone che lo hanno fatto sentire a casa come Johnny Campbell e Joe Parsons. Con la vittoria ha regalato al team Monster Energy Honda il primo successo dal ritorno come team ufficiale nel 2013 e ha interrotto il dominio di KTM che continuava incontrastato da 18 anni, esattamente dal 2001 del nostro Fabrizio Meoni.