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Francesco Cigarini: "In Ferrari grazie a Porta a Porta, l'incidente con Raikkonen e l'addio dopo 22 anni. Schumacher? Nessuno come lui. Ecco perché"

  • di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

7 giugno 2022

Francesco Cigarini: "In Ferrari grazie a Porta a Porta, l'incidente con Raikkonen e l'addio dopo 22 anni. Schumacher? Nessuno come lui. Ecco perché"
Quando ami qualcosa ogni sentimento è amplificato. "Le gioie sono incontenibili e le delusioni inconsolabili" racconta Francesco Cigarini, storico meccanico Ferrari del team di Formula 1 che, dopo 22 anni in rosso, a fine 2021 ha lasciato il circus. Dall'onore di aver lavorato con Michael Schumacher all'amicizia con Sebastian Vettel passando per i giorni difficili di un lavoro complesso, fino ad arrivare al terribile incidente in Bahrain durante il pit stop di Kimi Raikkonen. Da lì, un solo obiettivo, quello di abbattere muri. E in questa intervista ci ha raccontato come ha fatto: andata e ritorno dentro un sogno chiamato Ferrari

di Giulia Toninelli Giulia Toninelli

Di quel giorno Francesco ricorda tutto. "Non ho mai perso coscienza, se chiudo gli occhi ho ancora nella testa gli sguardi preoccupati di chi mi osservava dall'alto mentre ero a terra". Gli sguardi torneranno spesso, nel corso di questa intervista con Francesco Cigarini, storico meccanico di Formula 1 che per 22 anni ha seguito il circus con la Scuderia Ferrari. Sguardi di piloti pronti per scendere in pista: occhi felici, occhi calmi, occhi che trasmettono tutto senza bisogno di parole. Occhi che Francesco negli anni ha osservato, studiato, avuto il privilegio di vedere da vicino arrivando a patti con una passione che, quando diventa la tua vita e il tuo lavoro, "ti fa provare ogni emozione amplificata a mille: gioia senza freni ma anche dolore e delusione impossibili da curare". Adesso che Francesco è "uscito dalla lavatrice" del motorsport può osservarsi da fuori e tirare le somme di questi anni duri, indimenticabili e pieni di sfide. Lo facciamo insieme seduti in un bar che, neanche a dirlo, ha una macchina - una enorme Caddilac - sul tetto del locale. Io prendo un caffè, lui da buon bresciano beve un pirlo. A due passi dal South Garda Karting, dove adesso porta il figlio "a guardare i piloti girare con i kart" ripercorriamo a ritroso questa storia in rosso partendo proprio dal giorno più duro: quello dell'incidente del 2018 in Bahrain durante il pit stop di Kimi Raikkonen. 

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Com'è stato lavorare in Ferrari per 22 anni? 
Come stare dentro una lavatrice. Quando sono uscito dalla centrifuga, a causa dell'infortunio del 2018, mi sono accorto di quanto la lavatrice girasse velocemente. Dopo l'incidente ai box (durante un pit stop alla monoposto di Kimi Raikkonen in Bahrain, ndr) mi sono chiesto se sarei tornato e lì forse per la prima volta dopo tanti anni mi sono reso conto del privilegio del mio lavoro. 

Ma dopo l'incidente volevi davvero tornare al tuo lavoro? 
Sì. Era una sfida personale: volevo ritornare in pista e far vedere che c’ero ancora, ero ancora degno di essere chiamato uomo Ferrari. Poi quando sono tornato ho voluto buttare giù, uno alla volta, anche gli altri muri. Nonostante avessi un ruolo diverso volevo tornare a fare i pit stop attivamente, anche se non in modo ufficiale, per dimostrare a me stesso di poter stare ancora lì. Nei primi test mi mettevo accanto alla macchina, senza fare niente, ma per vedere se la mia testa accettava ancora la macchina, la velocità, il movimento. Volevo rompere quei muri e alla fine ce l'ho fatta. 

Hai avuto paura?
No, mai. Però quando sono tornato in Bahrain mi ricordo che mi sono trovato a fissare il luogo dove ho avuto l’incidente.

Ti ricordi tutto di quel giorno?
Sì, non ho mai perso coscienza. Se chiudo gli occhi ho ancora nella testa gli sguardi preoccupati di chi mi osservava dall'alto mentre ero a terra. 

E Raikkonen come ha reagito all'incidente?
Mi ha fatto una videochiamata il giorno dopo. Io l'ho rassicurato perché alla fine non era neanche colpa sua. Poi in realtà sono stato in contatto più con sua moglie che con lui, Kimi - si sa - è un tipo strano, devi amarlo così e basta (ride, ndr). 

Quanto ci hai messo a riprenderti fisicamente?
Ad avere l'abilitazione per tornare a lavorare ci ho messo otto mesi circa. Però dopo qualche giorno ero già in cyclette, spingevo come un assassino. C’è stata una cosa che mi ha colpito, ovvero quando, già una volta ripreso, mi hanno detto che avevo scongiurato il rischio amputazione: per incidenti come il mio c'è il rischio che il corpo non riconosca più la gamba, lasciandola così morire. Era una cosa che non sapevo e che fortunatamente ho saputo solo dopo: la testa è tutto e la forza di volontà mi ha salvato. Io volevo tornare in Ferrari e ci sono tornato. 

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Ma come sei arrivato a Maranello?
Nel 1998 lavoravo in un’officina e mi piaceva il mio lavoro, era quello che volevo fare, ma puntavo più in alto. In quel periodo mi facevo molte domande sul futuro e causalmente vidi una puntata di Porta a Porta dove la squadra Ferrari del 1999 presentava la nuova stagione di Formula 1. Hai presente? Quella puntata famosa in cui Michael Schumacher entrò negli studi con la F300. Ecco lì dissero, rispondendo a una domanda, che per lavorare in Ferrari bisognava mandare un curriculum a Maranello. Probabilmente era meno macchinoso di adesso e sicuramente cercavano personale ma sta di fatto che dopo una settimana mi chiamarono. Il 29 luglio del 1999 ho firmato con Ferrari. Era il mio compleanno. 

Un grande periodo per la storia della Ferrari... 
Si, bellissimo. Ma soprattutto quando lo rivivi nei ricordi. Quando ci sei dentro sei sotto pressione, sempre in movimento, e quasi non ti sembra di aver vissuto certe cose. Se ripenso adesso al periodo di Michael Schumacher mi emoziono. 

Com'era lavorare con Schumacher? 
Quando c'era lui erano tutti accesi. Lo sentivi, sentivi nell'aria la sua presenza, il suo carattere. Era un perfezionista e ti infondeva la stessa voglia di fare bene: cercavamo tutti di tirare fuori il meglio per essere degni di lavorare con un campione come lui. Ed era umano, molto più umano di quanto si percepisse da fuori. Faceva molti atti di generosità senza farsi pubblicità e nei box sapeva fare squadra: si ricordava i nostri nomi, ci veniva a salutare e a chiederci come stessimo. 

Vettel invece?
Siamo in buonissimi rapporti anche adesso, mi ha invitato personalmente a Imola quest'anno per tornare nel paddock per una gara. Sebastian è un grandissimo appassionato di motorsport e proprio una bella persona. Una volta è anche venuto a casa mia... 

Davvero? 
Sì, ho visto dai social che era a girare con i kart a Lonato e gli ho mandato un messaggio. Dopo un po' mi squilla il telefono ed era lui che mi diceva che era fuori il cancello di casa mia. Ho una foto a cui tengo molto di quel giorno: siamo io e lui che guardiamo un'altra fotografia, una che ho appesa in casa, dove sono con Schumacher. In quella foto Michael mi stava guardando con il suo sguardo intimidatorio, quello del "sto capendo, non mi dire una cazzata".

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E Alonso com'era in squadra? 
Lui sposta gli equilibri, è una prima donna. Io non lavoravo nel suo box quindi non ero a stretto contatto con lui però Fernando è sempre stato un leone, in tutti i sensi. Apprezzo molto quello che sta facendo oggi, alla sua età, perché dimostra una passione vera e viscerale. Quando hai quella forza lì, quando ancora vuoi lottare in Formula 1 come sta facendo lui, non lo fai per soldi. Lo fai perché è la tua vita. 

Hai lavorato anche con Leclerc. Lui com'è? 
Lo conosco dai tempi della Ferrari Driver Academy e sportivamente è sempre stato un cannibale, lo si capisce dagli occhi. 

Dagli occhi? 
Sì, io guardo spesso gli occhi dei piloti perché trasmettono molto di loro, più di quanto dicano. Per esempio Vettel quando è in tensione ha un movimento delle palpebre molto lento, che ti regala sicurezza. Mentre Charles ha uno sguardo pieno di gioia. Sale su una macchina, su una Ferrari, ed è felice. È contagioso. Poi fuori è un ragazzo con molte pressioni addosso ma fa parte del suo ruolo e sta imparando a gestirlo. 

Le sentivate anche voi nel box queste pressioni? 
Quando tu hai una passione in mano vivi gioie e dolori in modo totalmente amplificato ma è grazie a queste che ti senti davvero vivo. Io mi ritengo un privilegiato perché ho avuto l'onore di cantare l'Inno d'Italia sotto i podi più belli del mondo e questo è valso i dolori più grandi. Non c'è via di mezzo quando lavori con la tua passione. 

Uno dei momenti più dolorosi? 
Il mondiale mancato di Massa nel 2008 e vinto da Hamilton all'ultimo giro. Soffro ancora. 

Ti sarebbe piaciuto vedere Hamilton in Ferrari?
Come sfida sì, mi sarebbe piaciuto. Però, sono sincero, non vorrei vederlo battere il record dei 7 mondiali di Schumacher. 

Adesso tu, dopo 22 anni in Ferrari, sei uscito dalla lavatrice e hai smesso di lavorare in Formula 1. Com'è uscire dalla lavatrice? 
Strano. Da una parte so che ne avevo bisogno mentre dall'altra mi mancano quelle emozioni lì: l’adrenalina di una qualifica, la griglia di partenza della domenica.

Hai paura di qualcosa oggi?
Ho paura di dimenticarmi degli episodi, di non riuscire a fissarli nella memoria. Quando Michael in Mercedes mi ha fatto salire sulla sua macchina. Quando Massa si è ritirato... ecco lì mi ricordo che ho pianto. O il suo incidente nel 2009. Tante cose vissute con la velocità e l'intensità della Formula 1 che vorrei non dimenticarmi mai. 

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