L'intervista che riproponiamo in versione leggermente rivista e attualizzata è del 2009 ed è stata pubblicata sul libro Motorcycle Rockstar, di Moreno Pisto. Nel camper ha la gigantografia di una sua foto del 1997. Sorride, ma un’auto è passata sopra al ritratto e all’altezza del suo sorriso adesso ci sono dei graffi. A ben pensarci questa sembra la metafora della vita di Giancarlo Falappa, l’italiano più vincente in Superbike prima dell’avvento di Max Biaggi, 108 gare disputate, 17 vittorie: un sorriso sfregiato. Se fosse un film, sugli schermi apparirebbe la scritta: questa è una storia vera. Se chiedi ai piloti dei suoi tempi chi non avrebbero mai voluto dietro all’ultimo giro, senti ripetere sempre lo stesso cognome: Falappa.
Giancarlo Falappa, il Leone di Jesi, un miracolato che ha fatto dell’azzardo il suo stile di guida: dove gli altri chiudevano il gas lui lo lasciava aperto. Un uomo che ha sfidato e battuto anche la morte. Pagandone, però, le conseguenze: 44 fratture e 56 giorni di coma.
Porta i segni del passato negli occhi e nelle parole, ha lo sguardo assente e la voce sembra uscirgli al rallentatore. Eppure è ancora lucido. Ricorda date, nomi, circostanze. E a quasi tutte le gare di Superbike lui c’è. Ci arriva guidando il suo motorhome, dentro al quale passa quasi tutti i suoi giorni, in giro tra le piste d’Europa e gli eventi Ducati in ogni angolo d’Italia.
Un milione in contanti, dieci in cambiali
“Sono nato a Filottrano, nelle Marche, ma i miei genitori mi hanno portato subito a Jesi, 20 chilometri di distanza. Ero un ragazzo screanzato. Mio padre non andava in moto, ma mi portava a vedere la coppa 1.000 dollari di cross. Avevo 10 anni. A 14 mi compra un Malaguti 50 Ronco 21. Io smetto di andare a scuola e comincio a fare il meccanico. A 16 anni prendo un 125, faccio la mia prima gara e la vinco. È il 78. Nell’80 mi iscrivo al campionato regionale. Vinto. Ma soldi non c’erano, mio padre vendeva macchine agricole, mia madre era casalinga, e smetto. Continuo a lavorare e appena posso prendo i miei pochi risparmi e compro un Suzuki 1100: un milione in contanti e dieci in cambiali. Il 13 settembre 1987 esordisco nella serie Sport Production. Vinco subito. Nell’88 la Bimota mi offre di fare le ultime tre gare promettendomi di iscrivermi al mondiale Superbike se avessi vinto il titolo italiano. Manco a dirlo, vinco. Nell’88-89 il pilota Bimota è Fabio Biliotti. Mi dicono: porta casco e guanti a Donington, ti facciamo provare e vediamo se vai bene. Il venerdì è il giorno delle prove libere. Giriamo un’ora e alla fine escono i tempi: Biliotti ventiquattresimo, Falappa pole position. Vado da lui e gli do una pacca sulle spalle: ‘Grazie mille, sei stato un ottimo maestro’. Prima manche: vinta. Nella seconda vado fuori pista per doppiare un islandese, riparto 13esimo, recupero fino alla sesta posizione”. Nella seconda gara, in Francia, succede una cosa unica nel mondo del motociclismo. Racconta: “La Bimota, per alleggerire il peso della moto, faceva dei manubri in titanio e per me che staccavo tardissimo facendo molta pressione, erano troppo sottili. Ero primo e a un giro dalla fine il manubrio sinistro si spezza. Termino la corsa con una mano attaccata alla forcella. I meccanici all’arrivo rimangono a bocca aperta e si affrettano a riparare il tutto per non incappare nella squalifica”. Quel primo anno di SBK Falappa arriva sesto.
Oltre la soglia di saggezza
Il suo camper è pieno di roba. C’è di tutto: Giancarlo colleziona i pass per i paddock, gli adesivi, i premi che gli danno i fan club Ducati che lo invitano, le coppe, i giubbotti, i biglietti da visita e alcuni articoli che parlano di lui. Uno di questi lo ha scritto un giornalista americano. Rende bene l’idea di chi era Giancarlo Falappa. Eccone uno stralcio: “La sua presenza fu la principale chiacchiera di quel weekend. Portava la Bimota oltre alla soglia di saggezza. Dopo una derapata in cambio di direzione la gente vide una cosa che non aveva mai visto prima: un’impennata in piedi”. Diventò la sua firma. “L’impennata in piedi faceva impazzire il pubblico e io correvo per il pubblico. Godevo a farlo godere”.
Gli incontri col destino: prima in autostrada, poi in pista
Il 12 dicembre 1989 collaudava la Bimota YB6 tra Cesena e Forlì. “Riconosco l’auto di Marco Lucchinelli, team manager Ducati in SBK. L’affianco mentre viaggiava a più di cento chilometri all’ora, apro lo sportello di dietro e riparto impennando in piedi. Il colpo d’aria lo fa sbandare, lui urla, mi fa segno di fermarmi nella piazzola di sosta. Credevo che fosse incazzato, invece era folgorato. Urla: “Sei un matto! Un pazzo! Tu devi assolutamente entrare nella mia squadra! Che fai il prossimo anno? Io sto andando alla Ducati, vieni con me”. Sono entrato nella sede, dove lo aspettava Castiglioni. Che mi guarda e dice: “Tu sei un uomo nostro”. Dopo neanche un’ora avevo firmato un contratto da cento milioni di lire. Tornato a casa, i miei genitori si misero a piangere”. Non ha più lasciato la Ducati.
Dopo l’incontro con Lucchinelli la sua carriera sembra decollare. Ma nel 1990 arriva il primo incidente. A Zeltweg, cinque minuti prima della fine delle prove, cade e si procura 27 delle sue 44 fratture in una volta sola. È il 30 giugno, il suo compleanno. I giornali erano già pronti a scrivere: nato e morto lo stesso giorno. Va in coma. E ci resta 18 giorni. Quando si riprende chiede: “Posso tornare in moto?”. Lucchinelli in quel periodo lo ospita a casa sua per la riabilitazione. Racconta: “Mi sentivo un po’ responsabile dell’incidente, visto che ero stato io a presentarlo in Ducati. Un giorno si alza dalla sedia a rotelle e comincia a urlare: 'Sono in piedi, sono in piedi!'. Ricade subito all’indietro. Sembrava morto. Per un attimo ho pensato di sotterrarlo in giardino. Per fortuna si è ripreso”.
Nel 1992 andava benissimo. "Poi Raymond Roche, team manager Ducati, mi chiama e mi gela: «Giancarlo, devi aiutare Carl Fogarty". Ma come, rispondo, io sono primo, Fogarty quarto... Era un ordine di uno sponsor che passava molti soldi alla Ducati". Nel 1994 è primo. Sembrava finalmente il suo anno. Ma nei test ad Albacete il destino se la riprende con lui. "Ero lì a provare il nuovo cambio elettronico. Sento il rumore della rottura sul rettilineo. Poi non ricordo più niente". Andava a 290. Vola all’indietro e atterra di testa. Massimo Corbascio, medico della clinica mobile SBK, lo porta in Italia. Resterà in coma per 38 giorni. Durante la convalescenza gli fanno ascoltare le telecronache delle sue gare più belle; il telecronista Giovanni Di Pillo lo va a trovare e gli urla: "Giancarlo, stanno arrivando Fogarty e gli altri, se non ti svegli ti sorpassano". Chissà se queste cose hanno influito, è bello pensare di sì, fatto sta che Falappa si risveglia. Per molti mesi resta senza memoria. Non riconosce nemmeno i suoi genitori. E siccome la ragione di vita è più forte della vita stessa dopo tre anni torna in pista. Ne doveva aspettare almeno cinque, ma i medici si fanno convincere dalla sua insistenza. Al quarto giro di prova scivola. È in coma ancora una volta. Dopo otto minuti si risveglia. I miracoli esistono. Già il fatto che riesca ancora a guidare ne è una prova. "Ho dato l’esame a Monte Carlo con un pullman. È stata l’ultima cosa che ho fatto a Monte Carlo, poi sono tornato a vivere stabilmente in Italia".
E adesso? Fuma, consuma litri di bevande energizzanti, gira l’Europa tra circuiti e eventi Ducati. Lo Stato lo aveva giudicato invalido al 44 per cento: “Ho rifiutato la pensione. Mi mantengo grazie ai fan club che mi ospitano e mi ripagano le spese di viaggio. Poi mi aiuta la Ducati e altri sponsor personali”. Donne? “Avevo trovato quella della vita, Paola. Ma nel 95 le ho detto: sei giovane, vai via, non è giusto che resti con uno che potrebbe stare tutta la vita sulla sedia a rotelle”. Sesso? “Niente Viagra. Quello mi funziona ancora bene”. Nei viaggi ascolta musica country e quando si ferma guarda qualche film western.
Dopo quello che ti è successo credi in Dio? “Sì. Ma non vado in chiesa e prego a modo mio. Se sono in vita lo devo anche a lui, penso”. E dopo tutto quello che ti è successo come vorresti morire? “Non mi interessa. Sono solo. Se avessi dei figli me ne preoccuperei”. Sei incazzato col destino? “Ho avuto due incidenti gravi, ho passato 56 giorni in coma, eppure guido ancora. Insomma, considerando l’alternativa, e cioè la morte, poteva andarmi peggio”.