Un Giro d’Italia con la rosa dalla prima all’ultima tappa. Era la primavera del 1990 e Gianni Bugno entrava ufficialmente nella leggenda. Una Milano-Sanremo, due mondiali consecutivi (1991 e 1992), il Giro delle Fiandre, due podi al Tour de France. A trent’anni dai suoi più grandi successi Bugno si racconta con un’autobiografia pubblicata da Baldini + Castoldi, scritta insieme al giornalista Tiziano Marino. Mi dice che non sapeva fare nulla (ovviamente glielo contesto), ma che aveva una grande forza di resistenza e una discreta capacità di adattarsi a ogni condizione. Forse è quello il segreto. Arrangiarsi e resistere. Lo raggiungo telefonicamente a pochi giorni dal 104esimo Giro d’Italia e partendo proprio da alcune pagine del suo libro parliamo ciclismo e di ricordi, ma anche di elicotteri e di mezzi pesanti, passando per sicurezza stradale e le fughe, perché non c’è niente di più bello quando non vuoi pensare a niente che prendere e andartene lontano. Il più lontano possibile.
Partiamo dal titolo del libro. Perché “Per non cadere”?
Perché la mia vita è sempre stata un’incognita. Non ho mai saputo quello che potevo realmente fare. Anche quando ho iniziato col ciclismo cercavo principalmente di stare fuori dal gruppo perché avevo paura.
Di cosa?
Temevo alcuni tipi di percorsi, non mi sentivo mai sicuro… e invece sono riuscito a primeggiare pur senza diventare un corridore funambolo. Alla fine, quello che ho fatto è stato semplicemente adattarmi, provando a fare tutto e cercando di non cadere.
Dici che non sei mai stato forte in salita, nemmeno in volata e neppure a cronometro. E che piuttosto ti arrangiavi. Sei consapevole che hai un concetto di arrangiarsi un po’ differente dall’uomo medio?
Eh ma è vero! Non essendo uno specialista e non primeggiando in una specialità mi sono dovuto adattare ai vari tipi di corridori che mi trovavo davanti e che erano tutti più forti di me in qualcosa.
Alla fine, il mio è stato un lavoro di resistenza.
È vero che tutto quello che ha vinto lo ha regalato… maglie, medaglie e trofei?
Verissimo! Casa mi è vuota, non ho più nulla.
Senza trofei tangibili… quale ricordo più di ogni altro rappresenta i tuoi successi?
Considero le mie vittorie tutte uguali e tutte importanti perché ognuna è arrivata in un modo e in un momento preciso. Non riuscirei davvero a sceglierne una.
Pullman, furgoni, camion… mi incuriosisce la tua passione per i mezzi pesanti. Da cosa nasce?
Mi è sempre piaciuto viaggiare, forse per quello…
A proposito: nel 1992 vinci il tuo secondo mondiale consecutivo e l’autista del pullman come premio te lo fa guidare in autostrada per 300 chilometri.
Fu una bella soddisfazione. Quasi quanto vincere quel mondiale. Del resto, se ho potuto guidare il pullman è perché prima ho vinto il titolo…
Con le automobili? Che rapporto hai?
Non ho macchine.
Macchine, mezzi pesanti e biciclette: a che punto siamo per una buona e corretta educazione stradale?
Stiamo andando nella direzione sbagliata. Stiamo investendo in piste ciclabili che però non servono a nulla perché non risolvono i rischi dei ciclisti che vanno in strada con gli altri veicoli. Inoltre, le ciclabili sono spesso pericolose perché non abbiamo quella cultura e quindi i pedoni le ingombrano e si crea il caos. Manca poi un’educazione stradale che parta dalle scuole, per far capire ai più piccoli come funziona la strada. Io ad esempio non ho mai capito perché se incontri un trattore che viaggia a trenta all’ora non ti fai problemi, ti metti in coda e aspetti… poi però se vedi dieci ciclisti in gruppo inizia a suonare e a cercare di sorpassarli.
E l’amore per gli elicotteri come nasce?
Sono sempre stato un appassionato. Quando gareggiavo li sentivo che mi volavano sulla testa e prima di smettere ho deciso di prendere il brevetto. Poi ho finito con le corse e ho iniziato a lavorare sugli elicotteri.
Più difficile scalare la cima Coppi o seguire il Giro con l’elicottero?
Sono due cose difficilissime per cui serve tantissima passione.
Che rapporto hai con le fughe? Ti piace prendere il largo e lasciarti tutti dietro…
Quando sei solo non devi gestire gli altri, non devi avere paure o preoccupazioni. L’unico pensiero che hai è quello di continuare a tenere il vantaggio e di tagliare quella benedetta linea di arrivo.
Le fughe in fondo sono state il tuo marchio di fabbrica fin da giovanissimo.
Le fughe e anche le volate a ranghi ridotti. Poi come ho detto, mi arrangiavo in tutto
A proposito di fughe mi viene in mente quella pericolosa abitudine di alzare le mani prima di tagliare il traguardo. Hai mai pensato: stavolta l’ho fatta grossa?
No. Giuro che ho sempre saputo in cuor mio che avevo vinto, pure se poi si andava a controllare al fotofinish. L’unica volta in cui ho temuto davvero qualcosa è quando ho vinto il Giro delle Fiandre nel 1994. Ma per fortuna è andata bene.
Tra pochi giorni inizia il Giro. Te ne sei innamorato da ragazzino vedendolo passare sotto casa su Viale della Libertà a Monza. Che ricordi hai del tuo primo Giro da professionista?
Il mio primo Giro d’Italia fu un’emozione unica. È la corsa più importante che abbiamo Italia, il mio Paese. Poi cade in primavera e si crea una sensazione particolare che ti fa sentire diverso, rispetto alle corse che si svolgono in altri posti.
Il Giro del 1990 lo fai in maglia rosa dalla prima all’ultima tappa. Per te che non ti sbilanciavi mai (Gianni Mura ti aveva soprannominato Vedremo) deve essere stato faticosissimo sopportare tre settimane di domande e sulla vittoria finale.
Iniziai quel Giro d’Italia con l’idea di prendere la maglia presto e di tenerla il più possibile. In tanti si aspettavano che la mollassi, perché era troppo presto. Dicevano: ma adesso la perde, adesso la perde… e io onestamente ero consapevole che potesse succedere. Poi arrivato all’ultima settimana ho pensato solo a tenerla. Ormai c’eravamo quasi. Contava la resistenza. Si entrava nel mio campo.
Nella tua prima gara da dilettante hai forato. Potessi tornare indietro cosa diresti al ragazzino Gianni Bugno che sta spingendo a piedi la bici fino al traguardo.
Che nella vita ti può capitare di tutto. Che non devi mai mollare e piuttosto devi pensare alla gara successiva, insomma: mai arrendersi e dare il massimo. In quella prima occasione fui davvero sfortunato, ma poi qualche rivincita me la sono presa.