Ernesto Colnago ha scritto insieme a Marco Pastonesi un libro che racconta la sua vita, si chiama Il Maestro e la bicicletta (66thand2nd) ed è un duplice viaggio: nel tempo e nella mente di uno dei più brillanti italiani dal dopoguerra. La vita di Colnago è piena di bivi e di scelte coraggiose. Un imprenditore che anche quando divenne un’eccellenza mondiale passava parte del suo tempo in fabbrica a dar di lima e che a 88 anni ha piazzato nell’autunno del 2020 una sua bicicletta in vetta al Tour de France.
Con lui abbiamo parlato di tutto quello che c’è nel libro e che poi di fatto è tutto quello che c’è nella sua vita. Mi chiede due cose: di dargli del tu e nel riscrivere la nostra chiacchierata di non elevarlo troppo “perché io sono una persona semplice”. Gli faccio notare che mi sta chiedendo due cose complicatissime, ma che farò del mio meglio. Parliamo di crisi economica, scoperta di giovani talenti, delle notti insonni prima della Parigi -Roubaix più importante della sua vita. Mi spiega i telai in carbonio e mi parla di resistenza, sforzo e resilienza e io lì, a prendere appunti e a pensare che forse Ernesto Colnago detiene un altro record: è l’unico italiano a usare correttamente la parola “resilienza”. E poi l’incontro con Enzo Ferrari che di fatto gli cambia la vita. Un’altra volta. Perché il mondo è una ruota che gira, mi dice parlando dell’emergenza Covid. E se una frase del genere te la dice il signor Colnago è come se valesse doppio.
Hai detto che chi compra una Colnago cerca l’equivalente di un abito su misura o di un orologio artigianale. Che significa per Ernesto Colnago costruire una bicicletta?
Io sono nato per costruire biciclette. C’è chi nasce per fare il pittore, chi l’ingegnere, chi l’autista e io sono nato per fare biciclette. Ho cominciato a 15 anni a lavorare in una fabbrica di Milano in Viale Abruzzi, civico 42. Si chiamava Gloria e producevamo delle biciclette bellissime. Ho ottenuto quel lavoro falsificando la mia età ed è stato lì che ho iniziato a imparare.
In che senso falsificando la tua età?
Avevo 13 anni e per lavorare me ne servivano quattordici… Era il 25 novembre del 1945 e nevicava. La guerra era appena finita e all’oratorio del paese appesero un manifesto: cercavano dei ragazzi per lavorare alla Gloria perché tutti gli uomini adulti erano in guerra. Io ero già appassionato di ciclismo e decisi di provare.
Come vanno le cose in azienda in tempo di pandemia?
Ne stiamo risentendo tutti. L’economia è ferma e in questo periodo vanno per la maggiore le biciclette più economiche. In generale l’economia si è fermata. Ma il mondo è una ruota che gira e se il buon Dio ci dà una mano usciremo in fretta da questa situazione.
Un asso di fiori. Mi racconti perché è diventato il tuo marchio?
Michele Dancelli - che correva per la Molteni con biciclette Colnago - vinse la Milano-Sanremo, nel 1970. Al rientro verso Milano ci fermammo a mangiare a Laigueglia e lì trovai Bruno Raschi, il vicedirettore della Gazzetta dello Sport che stava preparando un pezzo sulla sua Olivetti. Scrisse: “Una bici in fiore a Sanremo, vince Dancelli”. Ci sedemmo a chiacchierare e mi disse: “Ma perché non registri il marchio con l’asso di fiori? Ti porterà fortuna…”. Gli diedi retta ed eccoci qui. Oggi davanti a un asso di fiori ci sono buone possibilità che in giro per il mondo pensino a una mia bicicletta.
L’introduzione del libro è di Fabian Cancellara. Uno dei tanti campioni che hai scoperto e poi lanciato…
Credo di aver fatto diventare professionisti tre o quattrocento atleti. Ancora oggi mi ringraziano. Anni fa, durante una fiera a Colonia mi avvicinò Viktor Kapitonov, il campione olimpico di Roma 1960 e mi disse che in Unione Sovietica tutti sognavano di gareggiare su una Colnago.
E tu?
E io decisi di sponsorizzare la sua squadra e di regalargli 25 biciclette. A quei tempi in Unione Sovietica non esisteva il professionismo nello sport, erano ufficialmente dei dilettanti, ma erano talentuosi. Alla fine li sponsorizzai per circa venti anni. Ho sempre dato una mano in Russia, Polonia e Germania dell’Est e proprio lo scorso anno mi ha cercato Olaf Ludwig, il ciclista della DDR campione olimpico a Seul. Mi portò il telaio della Colnago con cui vinse l’oro e mi chiese una mano per riverniciarlo perché voleva incorniciarlo.
Cambiò qualcosa quando si aprirono al professionismo?
I russi mi cercarono per chiedermi un aiuto. Mi chiesero una mano per far diventare professionisti venti corridori, trovandogli una squadra in Italia.
Immagino che anche in questo caso tu non ti sia tirato indietro.
Vidi un’opportunità nella Alfa Lum, una squadra di San Marino. La Alfa Lum aveva bisogno di alluminio (produceva serramenti ndr) e potevano comprarlo in Russia. Ecco il matrimonio perfetto. Ovviamente anche in quel caso misi a disposizione le mie biciclette.
Andiamo indietro. Ci sono un paio di momenti fondamentali che ti cambiano la vita nella prima metà degli anni Cinquanta.
Il primo evento è un incidente. Durante una gara per dilettanti, la Milano – Busseto mi ruppi il perone destro e dovetti star fermo 60 giorni. Nel frattempo ero diventato capo reparto alla Gloria, così chiesi al mio titolare, che si chiamava Alfredo Focesi, di farmi arrivare a casa un po’ di ruote da montare, almeno avrei guadagnato qualcosa mentre ero fermo.
E qui cambiò qualcosa…
Mi resi conto che lavorando da casa ero più veloce, mi venne l’idea di mettermi in proprio. Presi una piccola officina che misurava cinque metri per cinque e chiesi a Focesi di passarmi del lavoro, ma invece di denaro chiesi di essere pagato con del materiale che mi sarebbe servito per riparare le bici dei contadini e di qualche corridore. Focesi mi disse di sì e ci accordammo per 25 biciclette a settimana. Era una bici speciale, si chiamava Garibaldina.
Inizia così la tua carriera da imprenditore e arriviamo al secondo momento chiave…
Da quel momento, per due anni circa, ebbi un lavoro sicuro con la Gloria senza però avere una lira in tasca. Sono nato lì, dal nulla, lavorando sodo e tornando a casa stanco. Poi un giorno organizzai un’uscita in bici con un amico, Giorgio Albani, che mi disse che mi avrebbe fatto conoscere Fiorenzo Magni. Mancavano cinque giorni al Giro d’Italia e fu proprio così. Lo trovammo verso Lecco, c’era una zona con un grosso abbeveratoio dove si fermavano i ciclisti per rifocillarsi e c’era anche Magni con alcuni suoi compagni.
Come andò?
Si lamentava in dialetto toscano perché gli faceva male un piede. Aveva una bici nuova e diceva che qualcosa che non andava. A quel punto io mi feci coraggio e timidamente gli feci notare che aveva una pedivella storta e per questo provava dolore. Mi proposi di sistemargliela, lui accettò e venne nella mia officina. Ora immaginatevi i contadini che uscivano dall’osteria lì davanti e si trovavano i ciclisti professionisti sull’uscio della mia bottega.
Che effetto ti fece avere uno dei più grandi nella tua officina?
La prima cosa che mi disse fu: e io dovrei farmi riparare la bici in questo bugigattolo? Dovetti insistere: “Guardi signor Fiorenzo, me la lasci sistemare”. Morale della favola gli allineai le pedivelle e non ebbe più dolori, tanto che allungò il percorso per rientrare in albergo e prese una decisione.
Quale?
Mi propose di partire con lui e la sua squadra per il Giro del 1955. Io non avevo nemmeno la valigia e me ne prestò una di cartone mio cognato. Ero il meccanico più giovane del gruppo i più grandi mi presero in simpatia. Ero coccolato.
Dalla pedivella del Leone delle Fiandre alla camera d’aria di Arrigo Sacchi il passo fu più breve del previsto…
(sorride ndr) Ero a Cortina in vacanza e trovai Sacchi, Van Basten e Gullit in giro con delle mountain bike. Sacchi aveva forato e voleva tornare in albergo a piedi… beh gli cambiai in pochi attimi la camera d’aria. Mi guardarono come se fossi un alieno perché pensavano che fossi solo un industriale, ma fino a pochi anni prima ancora lavoravo di lima. Fu molto divertente e poi ci fermammo a mangiare uno strudel.
Eddy Merck e il record dell’ora nel 1972 a Città del Messico con una bici che pesa appena 5,5 kg. Come andò quell’avventura?
Volevo fare l’attacco del manubrio in titanio, ma in Italia non c’era nessuno capace di saldarlo. Dovetti mandarlo a Detroit e ne feci fare due, uno del dodici e uno del dodici e mezzo. Poi fui il primo a forare la catena per alleggerirla. Mi dissero che si sarebbe rotta, ma tenne come una catena normale. Introdussi i raggi in titanio. Oggi se ripenso a quel periodo credo di essere stato un po’ incosciente, ma sentivo che era la strada giusta.
E a proposito di rischi… se ti dico Parigi-Roubaix del 1995 che mi rispondi?
Con la Mapei arrivammo con delle bici in carbonio. Ci avevamo speso tempo e denaro. Avevamo fatto ogni genere di test e funzionavano, ma si inizia a spargere la voce che il telaio in carbonio non avrebbe retto il pavé e le bici si sarebbero spezzate in due. Mi chiamò anche Squinzi, il patron della Mapei, “Ernesto siamo sicuri? Ne va del nostro onore”. Cercai di convincerlo e chiuse la telefonata con un “Contento te, contenti tutti”. Fatto sta che quella notte non dormii, ma che emozione quando vidi uscire dalla foresta di Arenberg tre uomini Mapei in cima al gruppo. Poi Ballerini andò via e vinse da solo. Quel giorno abbiamo cambiato il mondo. Mi hanno prima preso in giro e poi mi hanno copiato tutti.
Un po’ come avvenne per la forcella dritta, su consiglio di Enzo Ferrari.
Conobbi Enzo Ferrari proprio nel periodo in cui iniziai a pensare al telaio in carbonio. Fu lui a dirmi che la forcella per ammortizzare doveva essere dritta. Io avevo dei dubbi, ma lui durante un pranzo a Maranello mi fece cambiare idea. Anche in quel caso ci derisero in molti e anche in quel caso alla fine avevamo ragione noi. La collaborazione con la Ferrari e la realizzazione della Ferrari Colnago è una delle cose di cui vado più fiero.
C’è un aneddoto del tuo primo incontro con Ferrari.
Lui - all’epoca ottantenne - mi chiese quanti anni avessi. Io senza pensare risposi che ne avevo già 54. E lui mi guardò storto e mi disse di vergognarmi. Mi disse che lui a 54 anni aveva appena iniziato a fare cose interessanti. Avessi 54 anni, mi disse, andrei a Roma a piedi.
Considerando che tu a 88 anni ha portato una tua bici in vetta al Tour de France (vinto da Pogacar nel 2020) possiamo dire che aveva ragione Ferrari ad arrabbiarsi?
Si certo. Ma vedi, quando le cose andavano male io pensavo a questi grandi personaggi che si sono costruiti la propria fortuna un gradino alla volta con le loro mani. E così ho fatto anche io. Per il successo serve serietà e continuità perché puoi imbrogliare una volta, forse due, ma poi è finita. A un asino puoi mettere una sella d’oro, ma sempre un asino rimane.
Di seguito la storia di Colnago per immagini.