Riccardo Moraschini è fermo da quasi cinque mesi, dal 21 ottobre. Sospeso, e ora squalificato, dopo non essersi mai dopato e dopo avere presentato un ricorso al tribunale che gli era stato formalmente indicato da una prima sentenza ma che, poi, si è rivelato essere quello sbagliato perché dichiaratosi incompetente. Storia kafkiana, ma tant’è, perché in un sottile equilibrio tra diritto, burocrazia e norme antidoping piuttosto confuse il cestista dell’Olimpia Milano e della Nazionale alla fine si terrà il suo anno di squalifica senza senso dal momento che, anche andando sino in fondo, alla fine l’anno lo perderebbe comunque a forza di ricorsi, tempi tecnici, attese e spese legali. Già essere associato al termine “doping”, per uno sportivo, rappresenta una macchia difficile da accettare, se poi diventa controproducente persino ripulirla beh, allora significa che c’è qualche problema.
Rapido riassunto. Lo scorso 6 ottobre Moraschini era stato sottoposto a un controllo antidoping della Nado, l’organizzazione nazionale antidoping, dopo un allenamento ad Assago e le analisi effettuate avevano riscontrato tracce di clostebol, uno steroide anabolizzante che compare nella lista delle sostanze proibite della Wada (World anti-doping agency) ed è utilizzato anche in prodotti cicatrizzanti. Di lì la sospensione cautelare e l’inizio della fase processuale: Moraschini ha da subito individuato il motivo della positività e scelto di non procedere alle controanalisi - il motivo lo spiegò su Twitter: ”Le controanalisi non servono se hai già individuato il problema della tua positività. Non sono altro che testare il secondo campione prelevato dalle stesse urine, uguale perdita di tempo e tanti soldi, così chiariamo una volta per tutte” - in quanto il suo era un caso di contaminazione indiretta, essendo stato in assiduo contatto con una persona che utilizzava uno spray cicatrizzante uno dei cui principi attivi era la sostanza vietata. Tradotto: stabilito il motivo della positività, per Moraschini era il momento di provare la buona fede. Rifiutata la richiesta di patteggiamento - un anno di squalifica - della Procura nazionale antidoping, la guardia emiliana si è vista squalificare a un anno il 3 gennaio dal Tribunale nazionale antidoping che, a tutti gli effetti, aveva riconosciuto e confermato la contaminazione indiretta.
Ora, prima di tornare su Moraschini, vale la pena soffermarsi sulla contaminazione indiretta, una fattispecie tutt’altro che infrequente. Tre esempi su tutti. Fu dovuta a contaminazione indiretta di origine alimentare la positività della pallavolista azzurra Miriam Sylla al clenbuterolo nell’agosto 2017, scagionata sì dopo oltre tre mesi ma costretta comunque a saltare l’Europeo a causa della sospensione (identica situazione capitò alla serba Ana Antonijevic), e scagionato per una contaminazione indiretta dopo la positività al dorzolamide fu anche il calciatore Giuseppe Rossi, la cui sospensione durò circa cinque mesi prima della completa riabilitazione. Ad Andrea Iannone, pilota di MotoGP risultato positivo nel 2019 al drostanolone, andò molto peggio, in una situazione in cui peraltro si scontrano verità processuali differenti.
Nell’aprile 2020 la Commissione disciplinare della Federazione motociclistica internazionale accettò la tesi dell’assunzione involontaria da parte di Iannone - anche qui per contaminazione alimentare - ma squalificò comunque il rider per 18 mesi, inaspriti poi a quattro anni dal Tribunale arbitrale dello sport, il Tas di Losanna che, contestualmente, si era trovato a doversi esprimere sul ricorso di Iannone, che puntava alla riduzione, e su quello della Wada che chiedeva proprio la pena poi inflitta all’abruzzese al quale, di fatto, non venne riconosciuto dal Tas ciò che invece aveva accettato la Fim.
Ecco, appunto, il Tas, e qui riappare Moraschini, il cui ricorso - come indicato dalla sentenza del Tribunale nazionale antidoping - era stato inoltrato alla Corte d’appello nazionale. L’udienza si è tenuta il 18 febbraio e il 10 marzo il ricorso è stato giudicato inammissibile. Nel metodo però, non nel merito, perché la Procura federale ha rilevato un vizio di forma sostenendo che il cestista, in quanto atleta di livello internazionale, si sarebbe dovuto appellare appunto al Tas di Losanna e non alla corte alla quale era stato presentato il ricorso. Di fatto per Moraschini e i suoi avvocati sono stati due mesi persi senza che la corte sia entrata nel merito dell’accusa, della difesa e della squalifica. Unica possibilità, insomma, un nuovo ricorso stavolta al Tas che, però, necessiterebbe di quattro-sei mesi prima di arrivare a sentenza, di fatto a squalifica ormai terminata, con il rischio peraltro di impantanarsi in una situazione nella quale si troverebbe a dover ridiscutere di tracce in quantità incompatibile con la pratica dopante ma magari ritenute dall’accusa non così trascurabili (che è, in qualche modo, ciò che ha causato l’inasprimento della squalifica di Iannone, un altro che ha sempre proclamato l’assenza di dolo). Tra l’altro, anche i precedenti riguardanti le positività al clostebol non sono incoraggianti, sebbene l’assunzione involontaria attraverso l’uso dei prodotti cicatrizzanti che lo contengono sia confermata anche dalla letteratura scientifica, come dimostra uno studio pubblicato intitolato “Detection of clostebol in sports: Accidental doping?” e pubblicato nel novembre 2020 sulla rivista Drug testing and analysis.
A questo punto Moraschini, spiegando la vicenda in prima persona su Instagram, ha annunciato l’intenzione di abbandonare l’idea di ricorrere di nuovo, accettando quella che ritiene comunque un’ingiustizia.
Così il merito della vicenda passa in secondo piano rispetto a tempi e modi della giustizia - quella dell’ordinamento sportivo, autonoma sì ma ricca di contraddizioni e di insostenibili conflitti di competenza - e della burocrazia. Se è vero infatti che quella dell’antidoping è un’eterna rincorsa a un avversario - la pratica dopante - sempre in vantaggio e sempre più sofisticato, è vero altresì che, fatte salve le reali frodi sportive, sui casi borderline il combinato disposto tra il giustizialismo delle organizzazioni antidoping e le incongruenze (e, come nel caso di Moraschini, i vizi di forma) della giustizia sportiva chiarisce che più di qualcosa non funziona.