La prima volta che ho visto giocare Ibrahimovic, nella Juve, mi sono detto: questo è un bluff. Una prima punta alta 1,95 centimetri che non entra quasi mai in area di rigore e non colpisce di testa? Ok, buona tecnica, però un po’ folkloristico: fra un paio di stagioni lo compro al Fantacalcio in svendita nel Chievo Verona (allora era la squadra più simpatica del campionato). Che cantonata che ho preso, da vergognarsi. Anche se, probabilmente, senza Fabio Capello come allenatore, che alla fine di ogni allenamento gli faceva vedere le cassette di Marco Van Basten, a quest’ora si sarebbe avverata la mia previsione. Non ne sono deluso, anzi. Anche perché dopo quell’esperienza in bianconero – in uno spogliatoio pieno di campioni, tanto che lui stesso ha dichiarato che gli sembrava di essere “dentro un videogames” – è diventato uno dei giocatori più dominanti che abbiano mai calcato il rettangolo verde.
Facciamo un salto temporale di vent’anni e di 34 trofei. L’ultimo è lo scudetto con il Milan di domenica. Quando ha segnato il quarto gol (poi annullato) contro il Sassuolo non ho saputo trattenere le lacrime. Sì, lo ammetto, sono milanista. E Ibra non posso che amarlo alla follia. È arrivato in una squadra giovane e con pochi soldi (dopo una prima e già esaltante esperienza) che non vinceva un campionato da 11 anni, e gli ha trasferito un carattere che neanche i suoi compagni sapevano di avere. Neppure Pioli: bravissimo a gestire il gruppo, ma quando vinci certe partire – il derby soprattutto – partendo da sfavorito e persino andando sotto, non c’è tattica o allenamento che tengano: ci vuole il carattere dei vincenti e quello lo ha circonfuso sulla società, quasi fosse uno sciamano, il buon Zlatan. Poco importava se fosse in campo o meno: se Ibra ti dice una cosa, o lo ascolti o lo ascolti. Sennò sono guai.
Lo hanno ascoltato. Ma adesso è tempo che lui stesso ascolti gli altri. Ancora meglio, prima che glielo dicano apertamente avviando un triste calvario come quello che ha portato all’addio di bandiere come Totti o Del Piero. Ibra, hai 40 anni e hai vinto tutto. I titoli che ti mancano non possono essere un cruccio per uno che si considera Dio (è uno dei suoi mantra). D’altronde, anche Maradona ha vinto meno di Rivaldo (che ha nel palmares Mondiale, Champions e Pallone d’Oro), eppure non ci sono dubbi su chi sia il più grande nella storia del calcio. Come “El Pibe” hai dimostrato di avere un peso specifico in una squadra che in pochi eletti possono vantare, hai segnato caterve di gol in sei diversi campionati, ti sei costruito un personaggio che mediaticamente ha superato quello di Eric Cantona (e che ti permetterà di fatturare per i prossimi 20 anni). Tutto questo per darti solo un umile consiglio, da tifoso e appassionato di questo sport: è ora di ritirarsi dal calcio giocato. Ma sono certo che quel sigaro sfoggiato durante la premiazione non sia stato soltanto un vezzo, ma un segnale che hai lanciato al mondo: ho avuto tutto sul campo, ora mi vengo a prendere il resto nella vita reale. Un bluff? Chissà. Stavolta, però, rispetto a vent’anni fa spero di non sbagliarmi.