Camicia bianca, blazer, pantalone grigio. Camicia in jeans, pantalone nero. Completo blu, cravatta, gemelli. Passo venti minuti come un idiota davanti allo specchio in camera a provare vestiti, non riesco a sentirmi a mio agio. Quando mi cade l’occhio sull’orologio sono le 8:30: ecco, è tardi, ho dieci minuti per arrivare in stazione, comincio a correre. Corro senza sosta, a perdifiato, come ogni volta, entro in treno mentre il controllore fischia, il fiato spezzato e il sudore addosso. In più sono vestito come un coglione. O, comunque, non come uno che deve andare a un funerale, ma questo è il funerale di Luca Salvadori ed è tutto diverso. 32 anni, un amico, un role model, un figo. Morto in gara, in moto, in un soffio, veloce come la vita. Vita veloce e senza alibi.
Cinque ore più tardi sono a Milano in Porta Venezia, verso la stazione della metro con Serena, Giulia e Moreno, i colleghi di MOW con cui stiamo andando al funerale. Moreno è vestito come se stesse andando in curva per l’Inter, le ragazze sono belle eleganti e pettinate, in diverse sfumature di nero. Sbuchiamo fuori dalla metro a Conciliazione, fuori dalla fermata ci sono dei poliziotti e una gran numero di moto parcheggiate fuori, un corteo. Poco più avanti la strada è bloccata, i cartelli dicono “PER CERIMONIA”. In lontananza, davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, due blocchi neri giganteschi racchiudono gli schermi. In piazza, pieno di persone in silenzio. Tanti ragazzi, tanti motociclisti, tante persone, un silenzio enorme.
Vediamo Edoardo Vercellesi e Guido Meda fuori dalla chiesa, andiamo a farci due parole. Guido racconta delle cene di Natale dai Salvadori, quando dall’altra parte del tavolo trovavi Battiato, Jovanotti, gente così: “C’erano loro e poi c’era il mago, questo mago che aveva lavorato anche per Putin. E il mago vola, vola”. Quelle cene, quelle persone anzi, erano uno dei motivi per cui Luca non se la tirava mai, sapeva di far parte del mondo e cercava di dare tutto sé stesso senza la necessità di imporre la propria persona. Guido parla di cosa sarà del canale YouTube di Salvadori in futuro e del fatto che Maurizio, il papà di Luca, non vuole che finisca tutto in un niente, nel vuoto. Con Edoardo Vercellesi, che lo conosce da sempre, ci scambiamo un lungo abbraccio. A un angolo della piazza è appeso uno striscione arancione, sembra la federa di un cuscino, forse un lenzuolo. C’è scritto Ciao Luca. È affettuoso e desolante assieme.
Comincia a piovere, prima piano e poi sempre più intensamente. Entriamo in chiesa, prendiamo posto e iniziamo a camminare. Vedo Alba Parietti, Francesco Facchinetti, Claudio Cecchetto, Jovanotti, Gianni Morandi, Eros Ramazzotti. C’è tanta, tantissima gente, tanti amici, entrano anche molti appassionati. Tra i completi scuri spiccano le magliette di team e piloti, piene di sponsor, che sbattono forte coi loro colori rendendo tutto più vero e forse più doloroso, di certo più terreno e vivo. La fidanzata di Luca siede in prima fila con la maglia dell’Inter, il 23 dietro la schiena e “Like a Sir” scritto sulle spalle. Mentre passeggiamo sento un tappeto musicale in sottofondo e vedo tanti, tantissimi schermi appesi alle navate laterali su cui scorrono foto di lui, di Luca, mentre i cameraman si dividono la chiesa studiando le inquadratura. Mi dico che in un’altra occasione, con un’altra persona, l’avrei trovato un po’ pacchiano e di cattivo gusto, invece è proprio così che doveva essere lì. È qualcosa che accade mentre siamo tutti insieme, questo funerale. Come se si cercasse di dividere il dolore per sopportarlo meglio, reggerlo un po’ di più: forse è proprio così.
Moreno mi chiede cosa vorrò al mio, di funerale. Gli dico che chi se la sente dovrebbe prendere un pizzico delle ceneri e disperderle in un bel posto, un posto che potrebbe piacermi. Gli chiedo che farebbe lui, mi risponde di non averci ancora pensato troppo seriamente. Mi concentro sui rumori. Pochi e incerti, poi il silenzio. Tacchi che sbattono senza pietà sui marmi freddi, qualcuno che tira sù col naso, poi uno scroscio di applausi gigantesco quando, dagli schermi, vediamo la bara uscire dal carro funebre. Sento questo applauso lunghissimo che non vuole interrompersi mentre la bara, di un bel legno chiaro, entra in chiesa e penso che ora no, ora non si torna più indietro, non si può dire che era meglio farlo un altro giorno il funerale, farlo diversamente, non farlo proprio perché non c’è bisogno, che le cose si sistemano e che tutto è un po’ più semplice, che se proprio crediamo ci si può ripensare, rivedere. Le parole del fratello di Luca, che si presenta sullo scranno con una maglietta del Monaco, sono tuonate violente che invadono la chiesa. È un temporale estivo di parole. Poi comincia la messa, vedo un meccanico tatuato anche sulle orecchie piangere a dirotto.
Siamo seduti da un po’ quando Moreno mi fa una battuta. Potente, leggerissima, irripetibile e micidiale: cerco di non scoppiare a ridere, eppure è difficile e diventa un momento bellissimo. Penso a come se la riderebbe Luca, a come ci guarderebbe. Serena mi fa notare che quando il prete, dopo un’omelia eccezionale, chiude con Ciao Luca, fuori esce il sole dopo la pioggia ed è come se si accendesse la luce. Prima parla di Lucio Dalla, dei tre valori di Luca tra cui mi resta impressa la parola INTENSITÀ, del fatto che siamo su di un aereo e ci sembra di essere fermi quando in realtà andiamo fortissimo. Si rivolge a noi come uomini nel mezzo, tra il cielo e la terra, chiede di fermare per un attimo le nostre vite sempre di corsa, fatte di eccessi. Fuori, dopo la cerimonia, passeremo il tempo a cercare la battuta, a mettere un filo d’ironia tra i nostri pensieri. È il nostro modo per soffrire un po’ meno, per sentirci più vicini e non sprofondare nel dolore: siamo comunque pieni di vita e rendercene conto è il tributo più vero che si può fare a uno come Salvadori. L’uomo che racconta barzellette ai funerali è un uomo che ha visto questo mondo e quell’altro.
Eppure non basta e ogni tanto mi vengono i brividi, sento freddo. Sudore, gli occhi lucidi, freddo ancora, voglia di sedermi, di stare in piedi, di camminare. Guido Meda fa un piccolo discorso, dice anche che i piloti della MotoGP, che Luca ammirava così tanto, erano diventati suoi fan, era riuscito nel diventare il pilota preferito dei tuoi piloti preferiti. Verso la fine della cerimonia, con la bara caricata nel carro funebre, comincia Sally di Vasco (“perché la vita è un brivido che vola via / è tutto un equilibrio sopra la follia”), accompagna le immagini dei video di Luca e le frasi di un video in particolare, così bello che la prima volta che l’ho visto l’ho chiamato per parlarne un po’. Le parole ti rimestano dentro qualcosa, Nick Cave dice che è come se avessi una bestia preistorica che ti viaggia in corpo, lo dice dopo aver fatto pace con un Dio che gli ha tolto due figli. Poi comincia Terra degli Uomini di Jovanotti, penso che uscirò da questa chiesa rivalutando il suo lavoro. Jovanotti è fuori con la famiglia che muove il labiale accompagnando la musica che ha scritto, è un momento enorme e pieno, gigantesco. Bravo, Luca. Grazie. Nell’omelia: non sperare di campare per sempre, spera di aver vissuto tutto con intensità. Grazie, Luca. La gente alza i caschi al cielo, in silenzio, è un esercito di affetto, una coperta di velluto.
Fuori incontro Vera Spadini, ci fermiamo a parlare. Mi dice che non riesce a togliersi dalla testa il fatto che lì, dentro quella cassa di legno, c’era Luca. Era lì, mi dice, con gli occhi verdi, belli sempre, che le si riempiono di lacrime. Parliamo un po’, riusciamo a sorridere, ad alleggerire. In qualche modo la vita ricomincia, lo fa sempre. Tutto attorno è un bel quartiere, si vedono cani di razza portati al guinzaglio da donne di servizio, qualcuno se ne va coi fiori della cerimonia come vuole la famiglia. Al fianco di una cartoleria storica c’è un negozio di vestiti per bambini, roba costosa. Penso che puoi crescere con la felpa smessa di qualche parente e le scarpe di due numeri più grandi o così, con queste giacche Stone Island da quattrocento euro e la camicia bianca per andare in terza elementare, eppure la ricchezza, come diceva quell’uomo lì sullo scranno, è in poche cose, semplici, che non vanno confuse.
Ci dividiamo un tavolino in quattro per bere qualcosa di forte, tranne Serena che prende una Coca Zero. Eccola lì, la ricchezza: due noccioline e un gin tonic annacquato con una fetta di limone. Ancora una volta, Ciao Luca. Avevi ragione tu.