Daniel Ricciardo ride perché è quello che sa fare. A dirlo è lui stesso, nel pieno del periodo più nero di tutta la sua carriera: "Sorrido perché altrimenti ci sarebbe da piangere". Sa che le cose non vanno, non c'è bisogno di ricordarglielo, ma non sa il perché.
Non capisce dove qualcosa dentro il proprio talento si sia rotto, dove gli altri lo abbiano superato, dove e quando abbia smesso di comprendere la macchina, di lottare, di darsi un'occasione. Non riesce a capire come quel pilota arrivato in Formula 1 pieno di talento e speranze, capace di far sfigurare Sebastian Vettel grazie al suo talento e prendersi il ruolo di prima guida in Red Bull sia diventanto in meno di un decennio un campione mancato senza sedile, un pilota che il prossimo anno resterà a piedi, senza spazio in quella Formula 1 che fino a poche stagioni fa tutti, ma proprio tutti, erano sicuri gli avrebbe regalato almeno un titolo mondiale.
Le troppe scelte sbagliate, le prese di posizione, i tempi che lo hanno incastrato dentro squadre, ruoli non adatti e che in un attimo lo hanno fatto passare dall'essere il Ricciardo che se ne va a testa alta da Red Bull dicendo "non sono disposto a fare il secondo pilota" alle spalle di Max Verstappen a quello che in McLaren non solo si è ritrovato nel ruolo del secondo pilota alle spalle di Lando Norris ma che è anche stato licenziato con un anno di anticipo sul contratto stipulato due stagioni fa.
È un puzzle andato in frantumi, un disegno che doveva essere già pronto per essere realizzato che si è mescolato con il tempo, rendendo impossibile tornare indietro, ricordare quale fosse l'obiettivo, il punto di partenza su cui lavorare. E allora Ricciardo ride, perché non sa cos'altro fare. Si traveste nel paddock, arriva ad Austin con un cavallo, in Messico con una maschera per celebrare El dia de los muertos, e cerca di non buttarsi giù. Non commenta le dichiarazioni del suo team principal, visibilmente deluso dai risultati scadenti di questo pilota così pagato, acclamato e amato. Non reagisce alle provocazioni di un compagno di squadra, Lando Norris, che dice di adorarlo e volergli bene ma che appena ne ha l'occasione lo butta giù spiegando come quest'anno corre "da solo contro due Alpine" e che "la macchina doveva adattarsi meglio a Daniel", girando il dito dentro la ferita di un ragazzo che vede la sua carriera andare a rotoli e non sa spiegarsi il perché.
In Messico Ricciardo ha finalmente ritrovato un pezzo di quello che aveva perso, mostrando i muscoli in una gara tutta attacco, divertimento, adrenalina ritrovata. È stato votato driver of the day da un pubblico che ha visto lo sforzo, il guizzo, dentro quella monoposto che ha segnato il suo (almeno momentaneo) ritiro dalla Formula 1. Si è emozionato, ha festeggiato, ha mostrato quello che - lo abbiamo visto anche lo scorso anno a Monza con la sua vittoria - da qualche parte c'è ancora. Ma forse la consapevolezza di avere ancora lì dentro, da qualche parte, quel talento che lo ha portato fino a dov'è è un peso ancora più grande da portarsi sulle spalle. C'è, è ancora lì, il pezzo del puzzle che manca. C'è, sparso come un sogno che non ha più un verso, ma Daniel non sa come riacciuffarlo. E il tempo per andare a riprenderselo è quasi finito.