Roger Federer è un'esperienza religiosa. Il primo a dirlo, a scriverlo, è stato uno dei più grandi scrittori statunitensi contemporanei, David Foster Wallace, e dopo di lui è bastato guardare il tennista svizzero muoversi sul campo per capire perché aveva ragione. Non era tennis il suo, era un'altra cosa. Era un tennis talmente bello da raggiungere un livello diverso, ed era un gioco così elegante che poteva portare la firma solo di un uomo come quello che l'ha reso suo. Roger Federer che fa uno split step perfetto sul prato di Wimbledon, Roger Federer che si butta a terra dopo una vittoria, che piange e ride, che diventa amico del suo più grande rivale, che si batte sempre, che non molla mai. Per lui non bastano i libri e i film, i racconti. Per raccontare il Re del tennis serviva qualcosa di più ed è arrivato Asif Kapadia in soccorso. Il regista premio Oscar che, nella sua carriera, ha già firmato capolavori del calibro di Senna e Diego Maradona, torna con un documentario sportivo in uscita il 20 giugno su Prime Video: Federer, twelve final days. Gli ultimi dodici giorni della carriera del più grande raccontati da vicino, in un viaggio che va dall'annuncio ufficiale al mondo all'ultima partita giocata, quella in doppio con Rafael Nadal alla Laver Cup 2022.
Kapadia lavora nell'ombra e si inserisce in un momento decisivo della storia di uno sportivo, come quello del suo ritiro, in punta di piedi. Nessuna forzatura, nessuna spiegazione inutile. Ci accompagna in una stanza in cui siamo ospiti, dove non conosciamo gli altri e dobbiamo farci strada da soli, provando azioni e reazioni, senza pretendere che qualcuno le spieghi ad alta voce. Si sta comodi e in imbarazzo allo stesso tempo, nella stanza creata da Kapadia, perché la forza di Federer sta nell'intimità conquistata con chi lo circonda e vederla da dentro, nei giorni più difficili, è come spogliare il Re e lasciarlo nudo.
Nudo mentre Mirka gli dà un bacio sincero sulla fronte dopo aver visto con lui il video del suo ritiro appena pubblicato sui social o quando si abbracciano stretti, piangendo, al termine dell'ultima partita. Nudo quando "le alpi piangono il suo ritiro" e Roger si allena per il match finale parlando del suo ginocchio maledetto, il vero e unico motivo del suo ritiro. Lo fa ricostruendo ogni passaggio di quella carriera ormai finita a cui sapeva di andare incontro: la prima operazione dopo gli Australian Open 2016, la lotta per il rientro, una seconda operazione, un'altalena di dolore e ricostruzione, dentro a un corpo che non risponde più come un tempo. Non è il Federer impeccabile anche nel dolore, quello di Kapadia, perché è un Re fragile quello di cui abbiamo bisogno per accettare il saluto del più grande di tutti. Un uomo in boxer a righe che in stampelle, con la barba sfatta, si sposta in una stanza d'ospedale dopo l'operazione al ginocchio. Un marito, un figlio e un padre capace di comprendersi da fuori, vedersi nel momento della debolezza. "Pensavo a Mirka e ai miei genitori e capivo che erano obbligati a vedere uno spettacolo terribile, tanto da essere costretti a girarsi da un'altra parte" dice Roger parlando del suo ultimo Wimbledon, della caduta degli dei con cui tutti i più grandi, prima o poi, devono fare i conti.
Lo svizzero che davanti a tutti resta impeccabile, mentre gioca a ping pong in smoking durante uno degli eventi della Laver Cup, ma che dentro cova le difficoltà di un futuro che per la prima volta si presenta incerto. Ma mentre fa i conti con la consapevolezza dell'incertezza del domani, intorno a lui ancora una volta si stringono tutti quelli di cui ha bisogno. Chiama, manda messaggi, risponde. E tutti arrivano per lui. A Londra per l'ultima partita non manca nessuno dei suoi avversari di sempre e anche lì, nell'emozione degli occhi degli altri, c'è la grandezza di Federer. Kapadia mette in fila gli anni delle sfide più belle, presentando uno alla volta gli avversari più significativi dello svizzero, lasciando grande spazio a un Novak Djokovic qua bambino con tutto da dimostrare, là robot dalla tecnica incomprensibile e infallibile. A Londra accanto al re però c'è solo Nole, il ragazzo serbo cresciuto nel mito di Federer che per lui, e per il suo tennis, si emoziona come tutti. Piange, anche Djokovic, perché anche nei giorni più duri delle battaglie in campo è stato sempre impossibile per gli altri non guardare Federer con la stima che si riserva agli eroi.
E poi è il turno di Rafa. Nadal che rimane nell'ombra per più di metà documentario, mai visto, mai citato, mai apparso. Poi scende da un pulmino a Londra, arrivato in tempo per giocare l'ultima partita, e cambia tutto. Cambiano i movimenti di Federer, che lo cerca e lo chiama, che lo vuole vicino. Cambiano i racconti della loro storia, che non è più quella di un tennista svizzero che combatte per il successo ma è quella di due avversari iconici che crescono insieme, che si completano sempre. Roger non si nasconde: "All'inizio non lo volevo, volevo essere l'unico". Poi però è successa una magia, una di quelle che non capitano mai: gli avversari sono diventati amici. I due più grandi tennisti del loro tempo, gli atleti che oggi chiunque guarda come mito ed esempio, sono riusciti a tenere sul campo la voglia di battersi ed emergere, mentre fuori hanno costruito una vita diversa. Non è solo rispetto, non è ammirazione. Dal documentario in uscita di Prime ogni secondo in cui sono presenti Federer e Nadal parla di qualcosa di più. Amicizia, amicizia vera. Quella di un Nadal che era "un ragazzino timido che non guardava negli occhi" diventato un uomo in lacrime che tiene la mano del suo più grande rivale nel giorno del suo addio al tennis.
Rafa che piange più dello stesso Federer, che vede la storia da fuori e sa che tutto cambierà, anche per lui. Loro che quel doppio finale lo perdono, ma va bene così. Perché la leggenda è già stata scritta e non cambierà certo dopo un doppio alla Laver Cup. E perché il tennis è così, è l'accettazione di match point sbagliati e partite perse a un attimo dalla vittoria. È la storia di un re perfetto, di un tennis mai visto, e che mai più vedremo. Ed è la consapevolezza che anche quel re smette un giorno di essere perfetto. Diventa un tennista sdraiato su un lettino a cui fanno riabilitazione al ginocchio mentre suo figlio lo abbraccia stretto, tenendoselo vicino. Diventa un uomo che non sa che cosa avrà davanti, forse per la prima volta nella sua vita, e accetta la paura senza il bisogno di nascondere le lacrime. Perché il re è fragile, nel giorno del suo addio. Ma non è debole. E mai lo sarà.