Era il 24 settembre 2022 quando Roger Federer salutava definitivamente il tennis alla Laver Cup, ospite della O2 Arena di Londra. Lì, l’intervista d’addio ai microfoni di Jim Curier. Lì, dove il mondo del tennis si fermò assieme al suo Maestro. Lui che smise di trattenere le lacrime, teneramente, e lasciò sul campo - ancora una volta, l’ultima - quell’umanità di cui è sempre stato ambasciatore. Forse una delle immagini maggiormente impresse nella mente degli appassionati. Una di quelle lì, che nemmeno il passare degli anni sembra riuscire a sbiadire, portatrice di emozioni che non scompaiono, attuali sempre per un campione la cui eredità non tramonta mai. Perché, quando uno degli atleti più amati di sempre si commuove, innesca un effetto a catena dagli orizzonti confusi, le cui conseguenze sembrano permanere indisturbate. Perché il tennis va avanti, eppure la mancanza si sente. Eppure, una ‘x’ sul calendario, in quella sera di settembre, è stata fatta e lì rimarrà per chi - con lo stomaco chiuso - ha sempre guardato Roger Federer giocare e che, con lo stomaco chiuso, lo ha guardato mentre smetteva di farlo.
È il 10 giugno 2024, 1 anno e 9 mesi dopo, Roger Federer si trova su un palco, ad Hanover nel New Hampshire, a chilometri di distanza dalla capitale inglese. Ospite della Dartmouth University, una delle prestigiose università statunitensi appartenenti alla Ivy League, riceve una laurea ad honorem in lettere e presiede il commencement speech (tradizionale discorso in occasione della cerimonia di laurea). Lo svizzero non fa tesoro dell’essere fuori dalla sua zona di comfort, ma riesce - con genuinità e naturalezza - a donare a studenti, accademici e a noi, una lezione di vita (o meglio, tre) da custodire. Insomma, si torna con il pensiero a quella notte londinese, solo con un pubblico diverso e in occasione di un diverso rito di passaggio. Si torna lì perché è lo stesso Federer a ricordarcelo. “Recentemente mi sono laureato, mi sono laureato in tennis”, “So che la parola corretta è ‘ritiro’ […] ‘Ritirato’, la parola è orribile”, scherza. Si torna lì perché agli studenti della Dartmouth rivela che va bene non sapere cosa verrà dopo. Che anche lui nei due anni dal suo addio, ha cercato di capirlo, che per superare il momento di transizione ha fatto sue delle lezioni importanti. Lezioni che ha deciso di condividere affinché la loro vita post-università possa risultare più dolce.
“’Effortless’ is a myth” [letteralmente, “‘Senza sforzo’ è solo un mito”]. Anche ciò che sembra essere semplice in realtà nasconde dell’impegno, che ogni ottimo risultato, nella vita, è frutto di battaglie silenziose. Spesso, non è tanto l’avere un ‘dono’, quanto avere la determinazione, la disciplina e la pazienza di perseverare, accettare e amare il processo, perché – dice – tutti dobbiamo lavorare su noi stessi, sempre. “It’s only a point” [“È solo un punto”]. Nella sua carriera, Roger Federer ha vinto l’80% dei 1.526 match disputati. Di punti, però, ne ha vinti il 54%. Cosa significa questo? Che “quando si gioca un punto, è la cosa più importante del mondo, ma quando è passato, è passato”. In altre parole, spiega, nella vita si perde, ci sono alti e bassi e nei momenti più neri si tende a dubitare delle proprie abilità, eppure, spesso ci si dimentica che non siamo i soli e che – come si dice – dopo la pioggia c’è sempre il sole. Che i migliori tennisti al mondo non sono coloro che vincono sempre, bensì quelli che sanno che perderanno e che sono capaci di accettare la sconfitta. Quindi, vi chiederete? Nella vita, non conta il singolo momento negativo, conta come si reagisce a quest’ultimo e soprattutto conta il quadro generale, il tragitto percorso, i successi e gli insuccessi. Nessuno escluso.
“Life is bigger than the court” [“La vita è molto più che un campo da tennis”]. “Sapevo che il tennis potesse mostrarmi il mondo ma sapevo anche che il tennis, il mondo, non lo sarebbe mai stato”. Chi conosce un po’ Roger sa che ha creato (nel 2003) una fondazione tramite la quale incentiva l’educazione infantile in Africa. Racconta ai neo-laureandi che è stata, e tutt’ora è, una di quelle esperienze, quelle ti fanno sentire piccolo, che ti rendono umile perché – in esse - nulla è dato per scontato, persino il significato di ‘tennis’. Insomma, dedicarsi a una causa “più grande di noi” può aprirci gli occhi. Che superare i propri limiti senza rinchiudersi in una categoria è ciò che ci rende migliori. Che circondarsi di persone è ciò che ci rende completi. Che in quella sera del 2022, Roger Federer diceva “in fondo mi sono sempre sentito un giocatore di squadra. I singoli ovviamente non riflettono questo, ma alla fine ho sempre avuto un team che ha viaggiato con me per il mondo”. Forse un po’ premonitore, o forse perché è una di quelle cose senza tempo. Nel 2024, Roger riprende il medesimo concetto, che il successo si raggiunge insieme, così nel tennista come nella vita. Perchè lasciare una “realtà familiare” è difficile, sì, ma è anche estremamente stimolante e famiglia ed amici c’erano, ci sono e ci saranno sempre. Regala così uno scorcio sul futuro, quello stesso futuro in cui si augura di incontrare qualcuno dei ragazzi che siedono dinanzi a lui, in tocco e toga, sotto la pioggia del New Hampshire.
E allora cosa ci resta di questo discorso, oltre alle lezioni appena viste? Ci resta un Roger Federer che a due anni dal ritiro continua a mantenere la sua promessa, quella di non scomparire. Ci resta un’icona eterna, sì, che fa del suo tennis una metafora per spiegare la vita a dei ragazzi che, la vita, ce l’hanno tutta davanti. Ma soprattutto, ci resta – ancora una volta - un esempio di umanità e umiltà. Che di Roger Federer non ce ne saranno altri, certo, ma è meglio così. Che tanto il ricordo di un tennis passato è ancora troppo forte, la sua presenza nel presente è il regalo più bello che potessimo chiedere e il futuro, che lo si voglia o no, porterà sempre in alto il suo nome.