My Name is Skrillex: era il 2011, tutto quello che contava per me era ascoltare i pezzi giusti, usare i termini giusti, MegaVideo, Bukowski, Trainspotting. Tra le altre cose, era importante per me la musica elettronica che in Italia stava per essere monopolizzata dalla dubstep, perché non era più soltanto roba da fighetti da discoteca, stava per entrare negli iPod di chi voleva essere avanguardia al liceo. Skrillex, i Dope D.o.d. con What Happened, i Noisia, la UFK e più avanti Salmo, che avrebbe sfruttato il momento per sfondare la porta della musica italiana mescolando questa roba al rap. Così è a Skrillex e al suo immaginario che penso ogni volta che vedo la scritta My Name is Baiox sul casco o dietro alla tuta di Matteo Baiocco.
Ok, ma cosa fa esattamente un coach in pista?
La gente parla dei coach in MotoGP come se fossero dei maestri Jedi, dei santoni, gente con cui non vuoi interagire perché passeresti da stupido. Loro, almeno pare, vedono cose che nessuno vede, offrono indicazioni preziose, roba di cui il pilota ha bisogno. Onestamente: se pensate che sia un’esagerazione e che i team si portano dietro questi personaggi per moda, con l’obiettivo di fare branding o perché i piloti hanno bisogno di un amico non siete i primi. L’ho pensato anche io per un sacco di tempo. Eppure poi, facendo due conti, ti ricordi che questi coach vengono pagati, che qualcuno paga loro aerei, hotel, macchine e tre pasti completi al giorno per venti settimane l’anno. E in MotoGP, per quanto possa sembrare un mondo sfarzoso ed opulento, ogni reparto lavora con grande praticità, senza sperperi, anzi cercando di ottenere il massimo da ogni persona. Ecco perché scoprire cosa faccia davvero un coach in pista è una grande soddisfazione.
Matteo Baiocco sembra un ciclista della riviera romagnola, anche se in realtà è marchigiano di Osimo, a mezz’ora dal Conero: abbronzatura permanente, fisico asciutto, muscoli allenati, nervi tesi. Ci diamo appuntamento nel retrobox per il secondo turno del venerdì, vicino all’Aprilia SR 200 GT che usa per girare il circuito. Mi consiglia di prendere con me un po’ d’acqua, mi porge un caschetto - obbligatorio per i pochi che hanno ancora il diritto di usare un motorino nel paddock - ed è, in genere, molto gentile. Indossa occhiali veloci, un datejust, la divisa Ixon di Aprilia. Ha un taccuino da giornalista d’assalto. Matteo guida lo scooter come un pilota e c’è poco altro da aggiungere perché le service road stanno diventando un tema politico in MotoGP. Ci fermiamo tra la staccata di curva 1 e il cambio di direzione per entrare alla 2, un posto meraviglioso. Matteo mi spiega il suo approccio al mestiere: “Parto sempre dalla prima staccata, poi vado a controllare un po’ tutti i punti più interessanti. Se il pilota ha una richiesta specifica o una particolare difficoltà vado a vedere anche quello”. Nel frattempo ha la radio impostata sulle frequenze del team e sente quello che viene detto dai tecnici nel box, che poi è il suo modo per sapere cosa sta succedendo in pista, che per il resto controlla con il Live Timing di Dorna. Osserviamo le moto in staccata. Io questa cosa di andare a bordo pista la faccio ogni volta che mi è possibile, perché alla fine andare alle corse significa vedere le moto da vicino e il rischio di scordarsi l’essenza delle cose è sempre altissimo. Capisci meglio la velocità, l’impegno e un pochino anche lo stile, oltre a come è fatta davvero la pista che dalla televisione o dalla PlayStation è sempre molto diversa.
Qui, comunque, ho la prima idea del mestiere di un coach: “Guardali qui, nel cambio di direzione”, mi dice. “Guarda come lo fa Quartararo e come invece lo fa Aleix, noterai che la Yamaha fa tutto in un tempo solo, senza movimenti, perché hanno premiato un po’ di più la stabilità. Senti anche il suono, qui entra il traction control (a farci caso si sente, in apertura di gas, un ra-ta-ta-ta impossibile da percepire dalla televisione, ndr) mentre la moto di Raul Fernandez quel suono non lo fa, è più pieno”. Roba incredibile, eppure è tutto chiarissimo. Matteo Baiocco è come quell’amico che ti risolve la Settimana Enigmistica con la stessa naturalezza di chi l’ha scritta. A questo punto lo chiamano alla radio: Aleix è caduto e va recuperato, altro compito di Baiox che mi lascia lì e scappa col motorino, consigliandomi di aspettare il suo ritorno verso la lunga discesa che porta a curva 3. Torna a ripescarmi dopo 10 minuti, io sono lì che mi concentro per percepire qualcosa. Eppure non sono un Jedi, non sento. Salgo sul motorino e ci lanciamo tra i saliscendi di Sepang che è un tracciato meraviglioso, il più bello su cui abbia mai messo piede. Meglio del Mugello? Beh, in un certo senso sì, anche se il Sic ha quella curva 9 a spezzare il ritmo del circuito che richiede un tale compromesso nell’assetto da rendere sicuramente più gratificante la guida sul tracciato toscano. Sepang però ha un che di magico. Dalla televisione sembra piatta e invece a camminarci ti rendi conto che è sempre in pendenza, dolce come una collina ma larga, anzi larghissima con curve sempre diverse, cambi di direzione, rettilinei da sparo. È la sorella sana di mente, che ce l’ha fatta, di Portimão.
Ci fermiamo dopo curva 4, che si fa a bassa velocità dopo una prepotente staccata in salita. Prima Matteo mi dice che qui terrà d’occhio Bagnaia, che forse - lo aveva notato nei test, quindi quasi un anno prima - sfrutta un pochino il cordolo esterno in uscita di curva per trovare un appoggio diverso, migliore, ma dopo tre o quattro passaggi decide che no, non lo sta facendo. A questo punto Matteo Baiocco si produce in una sparata fuori da questo mondo: “Vedrai che tra trenta, quarantacinque secondi, da qui passa una KTM seguita da una Yamaha”.
Baiox lo dice sorridendo, si sentono solo dei suoni in lontananza come se degli animali preistorici stessero combattendo per un pezzo di carne. Trenta / quaranta secondi sono luuunghi sotto al sole cocente della Malesia, provo anche un certo imbarazzo perché se dovessero arrivare una Ducati, una Aprilia o qualsiasi altra cosa che non sia una KTM seguita da una Yamaha mi toccherebbe fare finta di niente e forse, addirittura, consolare il mio spotter. Invece, ovviamente, eccole, una RC16 seguita da una M1. Binder e Rins. Precisi, morbidi. Con moto che fanno quasi lo stesso identico suono, perché non c’è la differenza che trovi tra due mezzi da strada e soprattutto le voci di quei motori lì arrivavano dall’altra parte del circuito. Non è, per capirci, quel gioco che puoi fare con gli amici al bar in cima al passo, quando senti arrivare quello col GS, la Ducati, il quattro in linea bombardato o un monocilindrico supermotard. È tutto estremamente più sottile, complesso e rumoroso.
Matteo Baiocco sorride al mio sguardo basito con la stessa malcelata soddisfazione di Sean Connery quando, entrando nell’ufficio di Miss Moneypenny, lancia il cappello verso l’appendiabiti centrando il manico. Magia senza sforzo e un’esattezza matematica: “È un gioco che mi piace sempre fare a chi viene con me”, dice ridendo. Penso a quanto possa essere un Jedi, al tempo che passa in pista (“se ci stessi anche tu come ci sto io ci riusciresti”, ma non è vero) e poi penso alla raffinatezza uditiva di chi corre: se dopo un incidente un pilota dovesse dichiarare, come succede ogni tanto, di non aver sentito arrivare un’altra moto - o di non aver capito che ci fosse proprio quel pilota dietro di lui - da oggi non gli crederò più.
Aleix si stenderà tre volte nel corso del turno. Noi faremo il giro di pista dall’interno studiando il freno motore, il suono in uscita delle moto - in effetti si studia soprattutto il suono - poi i movimenti della moto e del corpo, altrettanto importanti. Scegliamo cinque o sei punti diversi, di fatto comprendo tutta la pista. Il punto su cui ci soffermiamo di più oltre a curva 4, è quello da cui si vede la staccata dell’ultima curva, anche qui per capire meglio come funziona il freno motore. Poi, per non farci mancare nulla, ci studiamo anche le prove di partenza e qui Baiox fa addirittura un paio di riprese.
Penso a questo pilota marchigiano che si lancia su di una moto a trecentocinquanta all’ora con il tuono nelle orecchie, le astronavi in decollo sparate a tutta potenza nella scatola cranica. Forse è così, il nome l’ha scelto per quello, ma io stupidamente non gliel’ho chiesto. Sta di fatto che ho passato con lui un intero turno di prova in MotoGP, a Sepang, grazie ad Aprilia che mi ha adottato all’interno della squadra per un giorno. Sono quindi stato con il Team, ho ascoltato i loro discorsi in cuffia, dato la tabella a Maverick Vinales e l’ho pure riaccompagnato nel box con tanto di divisa Aprilia Racing. Poi, dopo aver smontato una ruota e lavato un cerchio, Antonio Boselli e Victoria Ortega mi hanno affidato a Matteo Baiocco, che da tanti anni lavora come coach in pista per tutti e quattro i piloti del marchio, per il turno di prequalifiche.
Io vedo poco, a volte mi sembra di carpire delle informazioni ma non ne sono sicurissimo, magari mi sto facendo solo suggestionare. Quando è il coach a svelarmi qualcosa però, è tutto limpido, trasparente. Come se mi stesse traducendo il linguaggio dei segni. Scrive tutti i suoi appunti a penna, su quel taccuino che porta sempre in giro. È bello che lo faccia. Tra una nota e l’altra interagisce col box, mi racconta del suo rapporto con Aleix Espargarò - di cui guiderà la moto due settimane più tardi - e saluta qualche collega. La strada di servizio è popolata di fotografi, commissari di pista, turisti facoltosi e spotter, come noi. Altri Jedi, gente che magari piazza una telecamera in una curva e ce la lascia per quaranta minuti andando altrove a gustarsi qualche finezza tecnica.
Io non lo so se Matteo Baiocco ha scelto il suo soprannome perché l’ha cercato ascoltando la dubstep, perché gli piace Eminem o per qualche storia da bar che non si può raccontare. So, invece, che con i piloti ha sviluppato un rapporto strettissimo, con Aleix Espargarò è quasi fratellanza. Fa un bel mestiere Matteo, in un certo senso è la massima espressione dell’ingegno umano, fa tutto quello che un computer, un’IA o un software non possono fare. Guarda, ascolta e e processa, connette, si immagina sulla moto e nel casco di chi la guida. È un Jedi. Ed ecco cosa fa un coach in pista: sente la magia perché è un linguaggio che conosce.