È come una pioggia di antidolorifici, stimolanti, eccitanti. Roba che potrebbe farti svenire, che alla lunga provoca assuefazione e tolleranza per cui non ti basta mai. È il motivo per cui gente come Peter Seymour Hoffman o John Belushi sono finiti a farsi iniezioni di speedball, che in un certo senso è un palliativo per chi diventa un numero uno e rimane solo, senza più quella sensazione così dolce e necessaria all’essere umano: il senso di appartenenza. Siamo animali sociali, diceva Aristotele.
Il senso di appartenenza è anche un’arma potente, sia in guerra che come in ogni altro genere di competizione, dall’alta finanza a una partita di rugby tra ragazzini. Ci hanno fatto i film con Mel Gibson con la faccia dipinta di blu negli anni Novanta e con i trecento delle Termopili nei primi Duemila. È fratellanza, qualcosa che non tutti hanno la fortuna di vivere nel proprio quotidiano. Ma è un nettare prezioso, raro e, soprattutto, impagabile: non c’è assegno che ti possa far sentire parte di una famiglia. Il senso di appartenenza può incasinarti la vita. Puoi comprare una persona e anzi, puoi comprarne dieci, cento. Eppure puoi comprare il loro tempo ma non il loro affetto. Nelle corse si parla spesso di quella roba lì, di quello spirito comunitario che permette ai meccanici di lavorare fino a notte sulla moto e che fa la differenza tra un podio e un decimo posto. Ma non puoi farcela se non sei motivato, se non ci credi davvero.
Aprilia mi ha fatto vivere questa cosa per un giorno. Un’esperienza assolutamente imprevista, enorme. Dentro un film senza telecamere, dentro per davvero per capire cosa sia quella colla che tiene legate le persone a un progetto, a una squadra, a quello che in televisione si sente riassunto nel valore umano della gente che lavora attorno a una moto. È un’idea di Antonio Boselli questa, lo stesso Antonio Boselli che mi ha invitato a Noale prima dell’inizio della stagione per capire cosa sia davvero un Reparto Corse. C’è una cosa, tra quelle che mi ha raccontato nel suo primo anno da Responsabile Comunicazione Motorsport di Piaggio, che non riesco a scordare: “La sera prima di andare in diretta a Sky facevo fatica a dormire. Senti l’adrenalina addosso e il peso della prestazione, speri che vada tutto bene, un po’ ti preoccupi. Nonostante questo non avevo idea di cosa mi sarebbe successo una volta entrato in un team. Quello che provi dopo una pole, dopo un podio, una vittoria… È assolutamente esagerato, bellissimo. Un’emozione enorme”. Cominciamo a parlare di questa giornata durante gli Aprilia All Stars, i primi esperimenti Aprilia li fa con le televisioni, tra cui quella italiana, Sky, con Vera Spadini. Per i media italiani, con una storia da pubblicare online, un invito soltanto: questo.
Così finisco in Malesia, a Sepang, per la MotoGP che in Asia è come il calcio da noi. Caldo umido e palme, tassisti asiatici, uno dei circuiti più belli e suggestivi della storia e una sala stampa gigantesca, merito della Formula 1 che a Sepang ci è passata per anni. Victoria Ortega, Vic, Press Officer di Aprilia Racing, arriva alla mia scrivania e nel suo italiano un po’ arrotolato, da spagnola che abita a Milano, lascia cadere dall’alto un’uniforme Aprila. Mi dice benvenudo nel tìm Cossimo. È, di fatto, l’uniforme ufficiale di Aprilia, quella che - scoprirò più tardi - non può essere davvero acquistata perché è una divisa vera, che non danno in giro perché le hanno contate e perché, soprattutto, è come l’uniforme dei pompieri: puoi averla solo se fai davvero il pompiere. È un momento importante. Vic dice che secondo lei la taglia è giusta. Mi precipito ai bagni, scarto il pacchetto, levo le etichette e indosso questo completo Ixon nella cabina di un cesso. È strano come nella vita momenti tanto significativi, dei piccoli rituali, finiscano per consumarsi così, a fianco di un malese che si fa il bidet con il doccino in dotazione in ogni cubicolo dall’altro lato di una tavola di compensato.
Esco dal cesso e davanti al grande specchio coi suoi quattro lavandini vedo un uomo Aprilia. Rimango lì, inebetito, felice come uno che si è laureato senza essere mai andato a lezione, agli esami o alla consegna della tesi, quindi felice due volte: per il risultato, oltre ogni aspettativa, ma pure per non aver fatto alcuna fatica. “Se scoppia una moto so di chi è colpa”, mi dice passando Matt Birt, voce internazionale della MotoGP per i canali ufficiali che si sta lavando le mani affianco a me.
Scendo le scale, sono le dieci e mezza. Vic mi porta nel box, per prima cosa mi consegna un paio di cuffie con trasmittente, quelle che si vedono in televisione - pesantissime - e dei guanti da officina. Sopra c’è scritto COSIMO. Sono dettagli che si fanno apprezzare. A questo punto vengo introdotto ai ragazzi del Team, sarò un uomo di Maverick Vinales nel primo turno di libere. Sto per scoprire cosa si dicono per tutto il tempo questi signori tra un momento e l’altro, anche se ho il sospetto che qualche canale mi sia stato precluso. Non è così, o comunque quello che sento è un sacco di roba, dettagli folgoranti. Entrare bel box durante un turno ufficiale, per altro vestito come qualcuno che sta lavorando davvero, è come entrare in chiesa durante un matrimonio: non dire niente, non toccare nulla prima di aver ricevuto il permesso e, in generale, non - fare - cazzate. “Gianlu mi senti?”, mi arriva una voce in cuffia, sembra di stare su Call of Duty. “Dura, carcassa N”. E poi ancora: “Matteo, fai B08 con la mappa”. Tutto intorno è a metà tra Starbucks all’ora di punta e un balletto russo. La gente cammina a passo svelto, smonta, carica, attacca, legge, pulisce, gira, comunica. Eppure c’è una grande armonia nel box.
I ragazzi provano l’impossibile per non farmi sentire come quello che in effetti sono, ovvero un altro problema a cui pensare durante momenti per cui hanno studiato e lavorato una vita, gli stessi momenti per cui prendono una cinquantina d’aerei all’anno lasciando a casa la famiglia e il cane e tutto il resto, con il tuono della MotoGP sempre dentro le orecchie. Maverick esce per il primo run e quando rientra, dopo qualche giro, è furibondo, dice che la gomma spinna come se fosse da buttare anche se è nuova. Si percepisce la frustrazione, diciamo.
Mentre lui prende un microfono - sentiremo tutti, in cuffia, le sue indicazioni - qualcuno scarica i dati dalla moto. Gli ingegneri elettronici leggono i dati e provano a dare le giuste indicazioni al capotecnico, Manuel Cazeaux. In questo caso parlano di understeer, sottosterzo, dicono di averlo in tre diverse curve. Cazeaux in tutta risposta dà ordine di lavorare al posteriore, abbassare di zeroventicinque. Poi ci ripensa: zeroventi. A questo punto si rendono conto di essere in ritardo di un minuto e mezzo rispetto alla tabella di marcia e vanno rivisti i piani del turno. Maverick riparte, nel box è caldissimo.
Di fatto abbiamo appena assistito al flusso di lavoro in un box di MotoGP. Il pilota arriva e comincia a parlare col capotecnico con un linguaggio fatto anche di “ran-ta-ta-ta”, oppure di “vuu, vuu, vuuuuu”. Il pilota agita le mani e scandisce le frasi due o tre volte mentre un ingegnere estrapola i dati dalla moto e i meccanici le danno una pulita. Mentre il pilota parla, gli ingegneri elettronici studiano i dati cercando riscontri tra le indicazioni che sentono da una parte e i grafici che vedono dall’altra, per capire quanto si tratti di numeri (e quindi della moto) e quanto invece di sensazioni. Quando si sono fatti un’idea restituiscono le loro informazioni al capotecnico, che a sua volta mescola le parole del pilota ai dati della telemetria e restituisce tutto ai meccanici “Abbassa di zeroventicinque, anzi fai pure zeroventi, poi mettiamo la B08”. Tutto questo succede via radio. Massimo Rivola, serafico come al suo solito, capisce il mio spaesamento e fa un sorriso: “Allora, come ti sembra? Ti sei guardato un momento allo specchio?”. Sì che mi sono guardato allo specchio, è stato impressionante. Ho forse i capelli un po’ troppo lunghi per essere uno che lavora davvero, ma per il resto sembro uno di loro, uno vero.
Chiedo a Paolo Bonora, un altro a cui piacciono davvero le corse, come vengono gestiti i turni. Lui, ridacchiando, mi spiega che i turni si organizzano il giorno prima: il capotecnico, con il pilota e il resto del team, decide quante uscite fare, di quanti giri farle e quanto rimanere al box. Così almeno idealmente ogni minuto di ogni turno ha uno scopo e lo stesso si fa con le gomme da provare, eventuali modifiche da apportare alla moto e via dicendo. Tutto sembra facile finché non si verifica un imprevisto come un piccolo sensore rotto, una gomma che non piace al pilota, una caduta: a quel punto il piano salta ed è anche lì che si misura la bravura di una squadra.
I minuti passano e Maverick continua a essere poco contento della moto, Aleix va a trovarlo e si dice d’accordo con lui. Quando esce per l’ultimo run io vado al muretto dei box con i ragazzi, che mi mettono in mano una cartellina piena di dati sensibili per fare qualche foto. Poi decidono che posso dare la tabella a Maverick. Quando Vinales passa al T3, il terzo settore, io comincio a tirarla su, pesante com’è, e a farla passare dall’altra parte del muretto. Mi ritrovo fuori per metà come uno che stende i panni a guardare l’ultima curva in attesa del mio pilota. Lui passa in un attimo, velocissimo. È una buona metafora del lavoro di ognuno all’interno della squadra: guardi i tempi, scegli con cura i numeri, li metti sulla tabella, prepari la tabella, aspetti che arrivi il pilota, mostri il messaggio. Il tipo passa in un tempo indefinibile, una sventagliata volante.
Faccio questa cosa per tre giri di fila e Maverick, addirittura, chiude il turno al secondo posto dopo essere stato in fondo per tutto il turno. Ecco, è così che ti convinci di aver dato una mano. Torniamo al box mentre Maverick va a fare le prove di partenza. Io godo a vederlo davanti. Godo davvero, penso a cosa possa voler dire vederlo vincere da dentro la squadra. Cosa si possa provare a vederlo sul podio, col trofeo in una mano e il dito puntato verso la squadra: sono solo le FP1 e per me è come aver fatto un piccolo capolavoro. Eppure l’unica cosa che ho fatto è stata dirgli quanto andava forte. È questa la magia di cui parlava Antonio Boselli.
La parte migliore arriva adesso. Prendi - la - moto. Fuori dal box ci sono dei nastri per terra, servono a indicare la posizione in cui mettere le RS-GP in caso di gara bagnata. Mi metto lì e aspetto che arrivi Maverick Vinales, pronto per prendere la moto al volo mentre lui scende e va a sedersi in poltrona. Victoria mi racconta che una giornalista straniera ha preso la moto per la manopola del gas rischiando un disastro e, quindi, di non imitarla. Sono lì, sotto il sole della Malesia, attorno alle 11:30 del mattino. I piloti cominciano a rientrare ma il nostro non si fa vedere. Passano due, tre, cinque minuti: niente. Cominciamo a pensare che si sia steso nel giro di rientro, il che probabilmente mi renderebbe assolutamente indesiderato nel box Aprilia, oltre ad azzerare la mia convinzione di essere stato utile. È così che si diventa superstiziosi. Ma no, eccolo che arriva, morbido, quasi rilassato, spegne la moto che ammutolisce a cento metri, la piega a venti metri e viene verso di me a una velocità esagerata. Io mi sento Keanu Reeves che ferma i proiettili, perché sto lì ad imporre le mani con una vocina che mi dice di fidarmi di questo scellerato abituato a viaggiare a 360 Km/h. Lui mi si ferma tra le mani e mi allunga un pugnetto. Io, in automatico, gli rispondo così, come fossimo nel Queens. La moto è leggerissima, il privilegio incalcolabile.
A questo punto Maverick sta trasmettendo altre informazioni alla squadra, tutta roba relativamente precisa. Si lamenta soprattutto della gomma posteriore dura, dice che è già da buttare nell’out lap. La moto viene messa sulla pedana. I meccanici cominciano a scaricare i dati e cambiano il serbatoio. A me tocca togliere la gomma posteriore, roba che in MotoGP richiede qualcosa come quindici secondi: togli un dado, sfili il perno ruota e lo infili in un alloggiamento dedicato sul cavalletto posteriore. Poi con due dita sollevi la catena dalla corona e sfili la ruota. A questo punto rimuovi la corona e ti trovi tra le mani una gomma cocente e preziosa come un sacchetto di caldarroste. La porto nel retrobox, dove pulisco il cerchio con del detersivo e un po’ d’acqua.
Nel pomeriggio andrò in pista con Matteo Baiocco, coach per Aprilia in MotoGP. In questi 45 minuti è stato come aver vissuto una piccola vita, una vita intensa. Puoi pensare che adesso le moto siano più semplici da guidare e forse è vero, anche se a vincere sono sempre i migliori. Eppure mettere a posto quei draghi in metallo fuso è sempre più complicato. Per farlo servono uomini, conoscenze, precisione. È dal 2007, più o meno, che, per accendere una MotoGP un privato deve portarsi dietro un paio di persone formate, oltre ad acquistare componenti costosissimi per mantenerne la funzionalità. È vero, la moto è più sofisticata e il manico fa meno la differenza. Il valore umano che c’è attorno a una moto invece, per assurdo, è aumentato a dismisura, tutti sono estremamente coinvolti. Ecco perché è così facile sentirsi parte di qualcosa in MotoGP. Ecco perché, nonostante tutto, chi comincia a lavorare in questo ambiente difficilmente torna indietro. Far parte di questa macchina perfetta, anche solo per gioco, solo di venerdì, è stato meraviglioso, un sogno lucido.
La sera Victoria mi chiede indietro la divisa. Ero convinto di potermelo portare a casa, so che di questa cosa mi resterà il ricordo e che sarà abbastanza. Eppure scopro che restituire l’abbigliamento è difficilissimo, per certi versi anche spiacevole. Così, quando il giorno dopo, sabato sera, ricevo un audio WhatsApp di otto secondi in cui mi Vic avvisa di tenere tutto, perché in realtà non è un problema, vivo un’altra, enorme emozione. E questo è il senso d’appartenenza, bellezza.