Quando Nicola Adams ha dichiarato, con un sospiro di sollievo, "Stanotte posso dormire sonni tranquilli", il contesto non era un trionfo personale, ma una rivendicazione morale. La prima donna britannica a vincere un titolo olimpico di pugilato è stata per mesi al centro di una tempesta mediatica per aver sostenuto che "le persone che non sono nate biologicamente donne non dovrebbero poter competere nello sport femminile". Oggi, dopo la diffusione di un presunto test secondo cui Imane Khelif avrebbe un cariotipo maschile, quelle parole suonano diversamente.
I risultati, rivelati da un’analisi cromosomica effettuata dai Dr. Lal Path Labs di Nuova Delhi, non lasciano spazio a dubbi: il profilo genetico di Khelif è “anormale” e “maschio”. Un dato che spazza via ogni tentativo di semplificazione ideologica, e che pone interrogativi gravi sulla responsabilità delle istituzioni sportive.
Secondo Oliver Brown, editorialista del Telegraph, la vicenda Khelif va annoverata tra i peggiori scandali della storia olimpica. Una tragedia sfiorata in cui “I dirigenti più potenti dello sport sono rimasti così sedotti dall'ideologia di genere che erano pronti a mettere in pericolo la vita delle pugili donne”. Il pugilato non è uno sport simbolico: è violenza regolamentata. E la presenza sul ring di una persona con forza e struttura maschile, contro atlete biologicamente femmine, rappresenta una minaccia concreta.
Il punto più grave? Il fatto che il Cio fosse già a conoscenza della situazione. “Nel 2023 era stato informato dei risultati dei test a Nuova Delhi”, scrive Brown, “ma non ha fatto nulla, disdegnando i test come ‘ad hoc’ e ‘non legittimi’”. La giustificazione usata allora fu che si trattava di una “macchinazione russa” per danneggiare i rapporti tra il presidente dell’Iba e Thomas Bach. Una scusa che oggi appare per quello che è: un tentativo goffo di depistaggio.
Addirittura, quando l’Iba cercò di presentare i risultati in conferenza stampa dopo il combattimento tra Khelif e l’italiana Angela Carini, “fu bloccata da minacce legali”. E proprio quell’incontro, durato appena 46 secondi, ha lasciato segni profondi: Carini lasciò il ring in lacrime, ripetendo tra i singhiozzi “Non è giusto, non è giusto”, una frase che oggi risuona come una condanna definitiva.

In risposta allo scandalo, il Cio ha emesso un comunicato che Brown definisce “una insalata di parole”. La dichiarazione, secondo cui “i criteri di ammissibilità sono responsabilità delle rispettive federazioni”, è smentita dai fatti. Il Cio ha preso il controllo diretto del pugilato olimpico a Parigi, istituendo la Paris Boxing Unit. Ha quindi applicato la propria regola: la “F” sul passaporto è sufficiente per determinare l’accesso alla categoria femminile, ignorando completamente il profilo biologico.
“Nel pugilato, però, ce n’era solo uno a cui doveva attenersi: garantire che le donne non venissero colpite in testa da maschi biologici”, scrive Brown. “E non è riuscito a rispettare nemmeno quel più elementare dovere di diligenza”.
La responsabilità, però, non ricade solo sul Cio. L’intero sistema si è piegato a una logica distorta, formalizzata nel regolamento del 2021 su "equità, inclusione e non discriminazione", che recita: “gli atleti dovrebbero essere autorizzati a competere nella categoria che meglio si allinea all’identità di genere autodeterminata”. Ma nel pugilato, sottolinea Brown, non si compete con i sentimenti, ma con i pugni. E questa ideologia ha avuto un costo enorme: ha compromesso la sicurezza, ha generato danni irreversibili e ha tolto il diritto alla correttezza a molte atlete.
Chi ha applaudito l’inclusione di Khelif senza farsi domande, chi ha tacciato di “odio” chiunque sollevasse dubbi, dovrebbe oggi riflettere. E vale anche per la stampa. “Venerdì, su Sky Sports News, un giornalista ha dichiarato: ‘Non ci sono stati test. Non ci sono stati risultati’. Eppure c’erano”, scrive Brown. I documenti c’erano, i dati erano noti, ma sono stati ignorati per paura di sembrare impopolari o conservatori.
Alla fine, è questa la lezione più dura: la verità scientifica è stata sacrificata sull’altare dell’ideologia. Il risultato? Un sistema che ha scelto di proteggere l’identità percepita di una singola atleta, piuttosto che la salute fisica e il diritto alla competizione equa di decine di donne.
Il lamento di Carini – “non è giusto” – dovrebbe restare inciso nella memoria dello sport moderno. Perché ciò che è accaduto a Parigi non è solo uno scandalo. È un tradimento.
