Vista da una parte, la delusione per una sconfitta che riduce al minimo le possibilità di passare il girone di Champions League, è per gli interisti un altro tassello di sconforto che si incastra alla perfezione in questo infernale puzzle chiamato 2020. Da un'altra angolazione, più esistenziale, diciamo così, l'amarezza che si è piantata in gola a tutti i tifosi nerazzurri dopo la combinazione fulminea dei ragazzini madrileni che ha portato al gol vittoria di Rodrygo ha un sapore così intimamente familiare da risultare in qualche modo consolatoria. È quel tipo di sofferenza atavica che connota da sempre l'interista, e che in questo preciso momento storico, in cui l'incertezza è la pozza in cui ci troviamo a galleggiare, ha il – discusso – merito di stabilizzare. Di rimettere un po' d'ordine. Mentre il virus è tornato prepotente a mettere in crisi l'idea di futuro – e anche di presente -, mentre sul voto degli Stati Uniti incombe l'incubo di altri quattro anni nefasti, l'Inter perde una partita che aveva l'obbligo di non perdere. Mentre tutto attorno cambia e solleva scomode domande sulla propria identità e sul proprio posto nel mondo, ecco che l'Inter ricorda ai tifosi nerazzurri chi sono, da dove vengono, qual è il loro ineluttabile destino. Offre loro un punto fermo. È una scossa di riassestamento di questo lungo terremoto. Con buona pace di Eraclito e della sua teoria sul divenire, in questo caso la staticità è un bene utile come la mascherina: tutela.
Il canovaccio della partita contro il Real Madrid è un manifesto del tipico psicodramma interista. L'assenza di Romelu Lukaku, giocatore totemico e assoluto riferimento, indirizza la gara sui binari del pessimismo. Inizia la partita, e immediatamente si capisce che non ci si annoierà. Le squadre vogliono giocarsela, ed entrambe appaiono coraggiose e fragili. A ogni azione e a ogni costruzione dal basso sembra possa succedere qualcosa, da una parte e dall'altra. La desolazione di un impianto d'allenamento deserto contribuisce ad aggiungere leggerezza a una partita ballerina. A rompere questo strambo equilibrio ci pensa suo malgrado Hakimi, che si vede scappare via D'Ambrosio dal sostegno che doveva offrirgli per uno scarico e, complice una lieve spinta di Mendy, offre un assist involontario a Benzema, che non perdona. Poco dopo, sugli sviluppi di un calcio d'angolo, De Vrij compie il più imperdonabile degli errori perdendo la marcatura di Sergio Ramos, che segna il gol numero 100 con la maglia dei Blancos.
In quel preciso momento, al 33esimo del primo tempo, ogni spettatore con un po' di esperienza – soprattutto in fatto di Inter – sa perfettamente che la restante ora di gioco avrebbe previsto altri stravolgimenti. Nel bene o nel male. E infatti l'Inter la riprende, con i gol di uno splendido Lautaro Martinez e di Ivan Perisic, che siglando il pareggio salva una prestazione di difficile giudizio, in cui ha dovuto lottare con impegno e malcelato imbarazzo per muoversi in zone di campo e con posture del corpo che proprio non gli appartengono. Eccoci sul crinale. Un sottile colpo di vento sposterebbe di molto le ambizioni europee della squadra di Conte. Il pareggio è un buon risultato, la vittoria porterebbe l'Inter in testa al girone, la sconfitta la indirizzerebbe verso l'eliminazione. Ed è proprio nell'arco di tempo che va da questa condizione di speranza al momento in cui Rodrygo segna il 3-2, in questo limbo di illusione, che l'interista riconosce se stesso. Si riconcilia con il mondo.
L'Inter ha giocato una partita molto simile alle altre di questo inizio di stagione, in cui ha mostrato nitidamente difetti e virtù. Una squadra capace di controllare la partita con il pallone, che ha fisicità e attaccanti di grande spessore (i due titolari), ma che sembra avvitata nell'esigenza di dover seguire alla lettera ogni singola giocata dello schematico e iper-codificato playbook di Antonio Conte, finendo spesso per essere prevedibile; una squadra monocorde, incapace di mutare a gara in corso e che in fase difensiva sta pagando a carissimo prezzo una serie incredibile di errori individuali (sono sette i gol in più incassati rispetto allo scorso anno). Ha vinto una delle ultime sette partite tra campionato e Coppa (contro un Genoa dilaniato dalle positività al Covid), in serie A è distante cinque punti dalla vetta e in Europa è fanalino di coda del girone con due punti. Un bottino magrissimo per una squadra partita con ambizioni feroci, e che dopo appena due mesi è già in apnea di risultati, con un allenatore a cui viene ricordato con sempre maggiore insistenza – e sempre minor tolleranza - che con il suo lauto stipendio ha l'obbligo di fare di più.
L'allenatore salentino attinge al suo ormai noto frasario per spiegare la sconfitta – e in generale il momento negativo – nel post partita. E anche se è un Conte diverso rispetto a quello della scorsa stagione, prodotto del patto stipulato in agosto con la società – ti accontentiamo sul mercato, ti lasciamo lavorare sereno, ma basta scenate pubbliche -, l'ottimismo quasi dimesso della sua versione zen si appoggia sulle stesse parole di sempre: lavoro, crescita, dettagli e, soprattutto, percorso. Concetto sul quale si sofferma, spiegando che un anno fa, di questi tempi, l'Inter non offriva lo stesso tipo di prestazioni di personalità in Europa (in realtà l'Inter dominante dei primi tempi con Barcellona e Borussia Dortmund non si è vista in nessuna delle tre partite del girone finora disputate).
Percorso è una parola ricca, sottintende movimento, mutamento. Una direzione. Quella che l'Inter, in termini di progettualità, sta sicuramente tracciando, ma che in alcuni momenti non può fare a meno di scontrarsi con l'essenza del club, radicata nella sofferenza di serate come quella di ieri.