Fin dalle prime pagine del libro scritto da Ciro Ferrara, “Ho visto Diego e dico ‘o vero” (Cairo Editore, collana Arena), ho subito pensato a quella canzone di Manu Chao dedicata a Maradona: La vida Tombola. C’è un verso in particolare, che racconta in sostanza di una “vita moltiplicata per mille”. Quel brano – che è impossibile slegare dal documentario di Kusturica e dall’espressione dello stesso Pibe de oro di fronte al cantautore francese – rappresenta una perfetta traslazione del libro e di ogni altra più riuscita narrazione di Maradona: è impossibile separare il racconto dal sentimento.
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Lo chiarisce esplicitamente lo stesso Diego prima ancora dell’autore, nel corso della prefazione al testo, nelle librerie dallo scorso 22 ottobre ma proiettato ad allestire una strada emotiva e celebrativa che conduca dritto fino al 30 ottobre, al compimento dei 60 anni di Diego Armando Maradona. Dal 1984 al 1991, Ferrara sembra rifarsi all’osservazione partecipante di antropologica memoria, e racconta dal campo – nel campo – quel campione appena 23enne che in pochi mesi si prende sulle spalle Napoli e i napoletani, anche le loro ambizioni più insensate e utopistiche.
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Racconta quel populismo genuino e sfrontato che lo porta a “litigare col papa”, e a invitare la chiesa a “vendere tutti i suoi tetti d’oro” di fronte ai bambini che soffrono. Racconta quella sorta di sindacalismo nelle sue forme più concrete, quello che lo spinge a battersi affinché anche gli allora più giovani calciatori del Napoli – tra cui appunto Ferrara – avessero accesso alla piena percentuale sui premi, fino ad allora divisa con massaggiatori e staff. Quell’istinto riassumibile nell’atto di stoppare col petto un pallone infangato nel bel mezzo di una cerimonia, con indosso un vestito bianco: una delle più riuscite sinossi che lo stesso Maradona è riuscito a produrre di sé. Perché di fatto nessuno ha raccontato meglio Maradona come Maradona stesso, anche tramite le sue uscite peggiori, anche nei suoi gesti più gravi e apparentemente insensati.
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Racconta sul fronte più pratico di un calcio diverso, un calcio fatto di falli continui e durissimi in una sorta di strategia allora del tutto percorribile: non riesco a fermarti con le buone, lo faccio con le cattive. Ma tramite il celebre esempio di quel Verona-Napoli 3-1 restituisce un’altra delle caratteristiche di Maradona distanti anni luce dal presente: subisce senza reagire, non polemizza mai, non sul campo. Lo fa eccome fuori, anche per motivi un po’ più vasti e storici; gli bastano 90 minuti per segnalare pubblicamente che quei cori contro Napoli e i napoletani trasmessi in loop dal Bentegodi non vanno affatto bene, non possono essere considerati un elemento del calcio.
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Poi c’è il picco, i 2 scudetti e allo stesso modo il crollo, quello “spazio vuoto” nel corso degli allenamenti, quella sparizione brusca e traumatica che caratterizza la vita di chi vive d’istinto, a fior di pelle. C’è il Maradona “complottista”, circondato da nemici fino a poco prima fratelli e incastrato da un sistema che lo vuole fermare a tutti i costi. Anche questo, anche questi elementi, non possono trovare una lettura oggettiva all’interno di una narrazione che abbia al centro Diego Armando Maradona, e Ferrara è abile a farlo capire e a tradurlo in racconto coerente, al contempo personale e collettivo.
Ecco quindi che, oltre al ricordo, alla celebrazione del vissuto e all’augurio, Ferrara sembra voler dire su tutte una cosa del pibe de oro. Vuole dirla con la riconoscenza intrisa di dolore che contraddistingue periodi emotivamente equiparabili a montagne russe: intrappolato nella sua stessa immensa figura, Diego Armando Maradona ha volutamente o meno finito per intrappolare anche tutte le persone che gli erano attorno, lui compreso.
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