Un numero nove, però dieci, di qui la definizione, il neologismo di nove e mezzo. Pelè contiene Cruyff, Messi, Cristiano Ronaldo e, per citare un futuro molto italiano, anche Dybala. Contiene tutti quelli che ancora non immaginiamo. Quel milione di bambini che pensano di diventare Pelé.
Pelé è "La perla nera", il catalizzatore del più bel quintetto d'attacco mai schierato da una nazionale in un campionato del mondo. Ci riempiamo di significati e significanti quando snoccioliamo quel quintetto storico: Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino. Edson Arantes do Nascimento, Pelé è leggenda e maledizione, come la coppa Rimet, quella coppa, inafferrabile, che solo lui in appena 12 anni è riuscito a portarsi a casa.
Di seguito l'estratto del libro del giornalista Daniele Poto (Perrone editore) che si intitola proprio "Pelè. La perla nera".
Scrivere di Pelè vuol dire tuffarsi in un arcipelago, in un universo gentile e sterminato, materialmente e metaforicamente in un altro Continente dove c’è un altro concetto di vita e di calcio. Cercare di restituirgli delle coordinate spazio-temporali acconce per un europeo che digerisce oggi un football muscolare contemporaneo, in particolare se italiano. Abituato a pensare che il suo punto di vista sportivo-calcistico sia l’unico. Anche se demograficamente il vecchio continente assomma cinquecento milioni di abitanti contro i quasi sette miliardi del resto del pianeta. Ripercorrere la carriera di Pelè regala uno strano senso di vertigine. Possibile che un calciatore abbia vissuto così tante vite? Troppa gloria per un uomo solo seppur baciato dal talento? Cucire una biografia che regali qualcosa al lettore vuole anche dire restituire attraverso le parole l’immagine e il profilo alto del più prestigioso rappresentante del calcio brasileiro in opposizione alla costrizione tattico-strategica del calcio europeo. Un esercizio innovativo rispetto al mainstream e al provincialismo nostrano perché, anche nel calcio, abbiamo bisogno di liberarci dell’Eurocentrismo. Ovvero, in soldoni, pensando al versante brasiliano, fantasia, creatività, classe contro l’inquadramento nelle rigide regole dei moduli, degli schemi, della prevalenza dell’allenatore sul giocatore. In realtà tutti i tecnici che hanno diretto (si fa per dire, diciamo consigliato, Pelè) hanno tenuto per buona la massima: “Il miglior allenatore è quello che fa meno danni”. Frase minimizzata dalla quotazione commerciale perché spesso un allenatore guadagna di più del migliore dei suoi calciatori. Un esempio: Antonio Conte per allenare la nazionale italiana è riuscito a farsi riconoscere un ingaggio da 6,5 milioni di euro, più benefit riconosciuti dagli sponsor che hanno permesso il suo ingaggio. Ca va sans dire, perché ogni categoria deve mantenere alta la propria quotazione ma deve anche, contemporaneamente, minimizzarla se non nasconderla. Oggi ci separa un oceano da quel calcio brasiliano d’antan ma anche molto di più perché con lo spezzettamento del calendario e la parcellizzazione delle Coppe siamo chiusi in un continente (l’Europa) e nei suoi riti calcistici vieppiù più lontani dal Brasile e dalle sue suggestioni. Basti ricordare l’appeal perduto dalla Coppa Intercontinentale con le rissose sfide che vedevano protagoniste le squadre italiane opposte in genere a imprevedibili e poco conosciuti team sudamericani. Il fascino dell’ignoto si è perso, un po’ come la memoria. E parlando di Pelè cercheremo di sopperire alla mancanza. Pelè è nato nell’ospedale di Tres Coracoes il 23 ottobre 1940 sotto il segno della Scorpione. Segni particolare: fuoriclasse.
Scopriremo che Pelé ha un legame vivo con l’Italia. In effetti ce lo confermerà quando si affaccerà nel Belpaese da cui si è tenuto debitamente lontano da giocatore, figli di un’epoca in cui i brasiliani emigravano poco nel calcio perché stavano bene a casa loro, specie se giocavano nel prestigioso Santos. E’ buona educazione ed esercizio di pubbliche relazioni quello di Pelè ma è anche un po’ vero. E’ vivo il legame con il mondo ma l’Italia non è solo il ricordo di quelle marcature ruvide di Trapattoni o di Burgnich, un po’ alla Gentile, un po’ alla Benetti, oggi un po’ alla Chiellini, dunque in parole povere la quintessenza di una durezza che, quando va male, sconfina con la scarponeria. Su un difensore-centrocampista italiano (Bertini) Pelè così impietosamente si produrrà: “Era un artista nel commettere fallo senza farsi vedere. Mi affondava i pugni nelle costole o nello stomaco, mi scalciava le caviglie. Un vero artista”. Dunque, proveremo a “italianizzare” Pelè, senza banalizzare, il personaggio che oggi più che in portoghese si esprime in inglese, uomo di mondo internazionale, ambasciatore del Brasile, oltre che ex Ministro dello Sport. Italianizzarlo per rendercelo più vicino e comprensibile. Il tentativo è quello di una biografia poetica che immagini il suo pensiero e lo renda, se possibile, più vero e meno diplomatico della biografia che ha scritto. Un tentativo di letteratura saggistica o di saggistica letteraria che dir si voglia. Un’esplorazione dall’interno del più grande fenomeno del calcio mondiale. Indiscusso, indiscutibile e pure vivente, dunque non marmorizzato in una storia immobile. Un aneddoto curioso. Un nostro collega del Corriere della sera Franco Melli, fantasioso e creativo, un giorno fece uscire sulla pagina sportiva del proprio quotidiano un’intervista al giocatore brasiliano della Roma Toninho Cerezo. Completamente inventata. Questa disinvoltura costò un licenziamento in diretta a Maurizio Mosca dalla Gazzetta dello Sport per un’intervista analoga ma a Zico, contestatagli dal giocatore in diretta al Processo del Lunedì di Biscardi. Più discretamente il giorno dell’uscita del pezzo, Cerezo al campo di allenamento della Roma a Trigoria affrontò con decisione Melli: “Ma Franco, io e non ci siamo mai parlati!”. “Si, però Cerezo quelle cose le pensavi”. Contromossa tranchant e che tolse ogni potere di replica a Cerezo. E’ vero quelle cose le pensava ma non poteva dirle. Noi non inventeremo un’intervista ma cercheremo per induzione di offrire un Pelè vero o quanto meno verosimile. E seguiremo anche in diretta live per i suoi interventi sui social. Il nostro protagonista che a 80 anni compiuti è ancora molto attivo, protagonista seppure non invasivo, di una storia del calcio che si è fatta memoria, gesto, tradizione, mito e testimonianza girando il mondo per propagandare il calcio.
PELÈ È MEGLIO DI MARADONA
Perché non provare a cambiare l’adagio? E trasformarlo. Gli hanno riferito del curioso ritornello che alligna dalle nostre parti. E’ persona informata dei fatti. “Maradona è meglio di Pelè”. Sorride. Una musichetta che cantata dalle tribune funziona. Capisce che l’Argentina ha un idioma più comprensibile in Europa, che lo spagnolo è lingua diffusa (il portoghese meno) ma soprattutto che Maradona è Napoli, che l’Encantador ha colpito qui, anche nel senso che ha fatto figli prima illegittimi, poi legittimi, chissà perché. Invece lui, venti anni prima, figlio di un’altra generazione, è stato vissuto soprattutto televisivamente. La differenza tra un contatto virtuale e uno a pelle. Forse più mito perché lontano (la lontananza contribuisce a creare i miti). Pelè è liscio, Maradona è grezzo. Pelè è fair play, Maradona è sportivamente sgarbato oltre che politicamente scorretto. Pelè è tutto il Brasile, Maradona è mezza Argentina. Pelè si ama, Maradona si ama e si odia nel mondo. Maradona ha 20 anni meno di Pelè, quello è il suo vantaggio generazionale rispetto ai posteri. Pelè è nato quando infuriava la seconda guerra mondiale, senza peraltro sfiorarlo. Maradona è nato quando Roma tirava il bilancio della sua gloriosa Olimpiade.
Probabilmente pensa: “Ma io sono Pelè. Se lui è l’imperatore, io sono il Re, O Rey, di questa repubblica calcistica ancora abbastanza democratica. Chiedete a un cittadino del mondo che abbia tra i 65 e gli 85 anni, oppure che abbia comunque ancora un giorno da spendere prima di morire, chi sia stato il n. 1 nella storia del calcio. Non dovrebbe avere dubbi e indicare il sottoscritto. Forse una piccola minoranza potrà citare Di Stefano. Ma, Maradona? Andiamo..! Quel Maradona che batte l’Inghilterra con un fallo di mano? Quel Maradona che sniffa cocaina a Napoli, che semina figli per il mondo, salvo riconoscerli quando una sentenza di Tribunale gli da torto, che rivela impudicamente in un libro la sozza tresca con Loredana Bertè senza nasconderci alcun particolare, che si fa fotografare nella vasca da bagno a forma di cuore con i Giugliano camorristi? Quello che evade le tasse per milioni di euro e rischia di farsi arrestare non appena entra sul suolo italiano? Quello recidivo per doping, con la doppia tardiva squalifica tra il 1991 e il 1994? Quello che da uomo e da allenatore ha sbagliato quasi tutto quello che poteva sbagliare. Quello che si è infatuato di Fidel Castro…? Quello che da allenatore ha collezionato un fallimento dopo l’altro? Potrei continuare ma la pianto qui perché sarebbe stucchevole e non voglio infierire.
Il suo curriculum e i suoi fallimenti sono sotto l’occhio di tutti. Certe cose non posso dirle in pubblico anche se tutti le pensano. Abbiamo litigato e fatto la pace. Di nuovo litigato e di nuovo fatto pace. Ma una sordida e finta pace. Io non lo stimo e lui non mi stima. Non so che farmene della stima di Maradona. Pari siamo, il mondo giudichi. Io dico che le cascate di Iguazù sul versante brasiliano sono più belle di quelle del versante argentino, lui sosterrà il contrario. E’ il gioco delle parti. Siamo spesso popoli che non si possono vedere neanche in fotografia ma io non ce l’ho con tutti gli argentini. Ce l’ho con uno chiamato Diego Armando Maradona. Salvo il giocatore, peraltro non alla mia altezza, butto di corsa il resto e dunque soprattutto l’uomo…”. In comune con Maradona ha un numero dei sogni: il dieci. Quando partivano i loro prolungati assoli, il centravanti si scansava, lasciava fare…spesso anche il portiere avversario. Non erano dribbling classici, ma risucchi, onde anomale, finte che lasciavano sul posto il difensore. Pelè - per quello che conta - è anche il calciatore preferito di Franco Carraro nella autobiografia, pubblicata con il conforto di Emanuela Audisio (“Mai dopo le 23”, Rizzoli Libri, 2017). Concordiamo alla virgola la motivazione: “Pelè aveva tutto: destro, sinistro, colpo di testa, visione di gioco”.
Il testo che avete letto è tratto dal libro del giornalista Daniele Poto (Perrone editore) che si intitola "Pelè. La perla nera".
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