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Jack Miller e la morte: “Quando se ne è andato il Sic avevo 16 anni e succede ancora. Viene voglia di smettere”

  • di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

12 ottobre 2021

Jack Miller e la morte: “Quando se ne è andato il Sic avevo 16 anni e succede ancora. Viene voglia di smettere”
E’ il più istrionico tra i piloti della MotoGP, ma che Jack Miller ha un cuore grande è cosa più che nota nel paddock. Tanto che la sua riflessione sulle corse e la morte, condita con i ricordi più tristi con cui ha dovuto fare i conti in carriera, è un passaggio di rara umanità, qualcosa da far leggere a quei pilotini che, invece, sembrano scendere in pista senza la consapevolezza che la posta in gioco non è un podio, ma la vita

di Emanuele Pieroni Emanuele Pieroni

Stoppie, battute, bevute dallo stivale e, quando capita, anche qualche birretta ostentata. Jack Miller è così, sembra il matto del villaggio e, invece, probabilmente è il più sano di tutti. Perché non si è piegato ad alcuno schema, perché si mostra per quello che semplicemente è (un ragazzotto australiano cresciuto a pane e adrenalina e che ha realizzato almeno in parte i suoi sogni) e perché quando deve lasciar parlare il cuore lo fa senza rifugiarsi dietro frasi di circostanza. Anche a costo di risultare antipatico. Lo ha fatto ancora e questa volta non c’entrano niente i diverbi in pista con Joan Mir o le mille grane che hanno provocato a lui e alla sua moto le gomme Michelin. C’entra, invece, il più temuto degli argomenti per chi corre in moto: la morte. Lui l’ha vista in faccia più volte e, soprattutto, ma è con Marco Simoncelli, in quella maledetta domenica d’ottobre di dieci anni fa, che l’ha conosciuta veramente. E ha conosciuto, purtroppo, anche l’umiliazione di sentirsi schiavo di uno spettacolo. “Ricordo che avevo solo 16 anni quando Marco Simoncelli ha avuto un incidente mortale a Sepang. Quello è stato il mio terzo Gran Premio nella classe 125cc: è stato tragico e tremendo. Quel giorno non se ne andrà mai dalla mia testa. Ricordo, ad esempio, come gli spettatori lanciavano bottiglie vuote ai meccanici mentre stavano costruendo l'infrastruttura sul muretto dei box perché la gara della MotoGP non riprendeva dopo che era stata interrotta. Scene come questa non si dimenticano”.

La tragedia e lo spettacolo, quindi, per un sedicenne Miller che quel giorno sarebbe voluto fuggire altrove e che, probabilmente, per la prima volta nella sua vita si è trovato a riflettere. Così come accade oggi con tanti ragazzi che, in particolare in questo maledetto 2021, si sono ritrovati a fare i conti con l’odore terribile della morte. “Guarda Dean Berta Vinales. È nato nel 2006, non molto tempo fa. Il povero! Quel povero ragazzo. È caduto ed è morto. Orribile – ha detto Miller - Uno dei giovani piloti coinvolti nell'incidente alla gara della Supersport 300 a Jerez è l'australiano Harry Khouri. Come me, vive in Andorra: è in frantumi. Alcuni smetteranno di competere per questo, ma non credo che sia il modo giusto. Tutti sanno che questi rischi esistono e che possono verificarsi tragedie come questa. Ma non vuoi nemmeno pensarci, nessuno vuole affrontarlo: il pericolo non può essere eliminato”.

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Però può essere considerato e tenuto sempre a mente ed è proprio qui che Jack Miller sembra voler lanciare un invito a quei ragazzi che troppo spesso sembrano mettere un podio o i sogni prima della vita stessa. non possiamo permetterci che tre adolescenti perdano la vita in questo sport in quattro mesi. “Penso di parlare a nome di tutti i miei colleghi quando dico che sono stanco di passare sempre questi minuti di silenzio. Piangiamo bambini che erano così piccoli, questo non deve continuare. Assolutamente no – ha tuonato l’australiano della Ducati - Si possono migliorare le condizioni, si possono fare gare più sicure. Abbiamo discussioni sulle condizioni della Moto3, ma anche nel Mondiale Supersport 300 queste moto sono molto veloci e ci sono troppi piloti in gara”.

Gli organizzatori, quindi, dovrebbero regolamentare meglio le competizioni, soprattutto quando in pista ci sono i giovanissimi, ma anche le famiglie e chiunque avvicina un bambino al motorsport dovrebbe lavorare affinchè un concetto fondamentale risultasse chiaro a tutti ben prima di salire sulle minimoto: è pericoloso. Dall'età di sette anni, nei briefing per i piloti di ogni gara, mi hanno instillato: “Il motociclismo è pericoloso, io me lo sento ripetere sin da quando avevo sette anni – ha concluso Miller – E’ fondamentale che si educhi alla consapevolezza che è fin troppo facile perdere la vita o ferirsi gravemtne. Non deve essere paralizzante, ma non può nemmeno essere ignorato che questo pericolo è sempre lì... Ho perso molti amici in incidenti di gara, alcuni in tenera età. A volte è difficile da digerire. Il nostro sport è duro, brutale. Ma parte del fascino degli sport motoristici è che è così crudo e pericoloso”.

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