Michael Schumacher si misura con la grandezza, l'unità di misura di tutti i campioni. Guardi i filmati dei suoi primi anni in Formula 1, lo vedi camminare nel paddock, e sembra sovrastare tutto, ancora oggi, anche adesso che conosciamo l’epilogo di questa storia gigantesca.
E Schumacher, il documentario di Netflix, lo guardi così, come se questa verità ancora non la conoscessi. L’esordio di Spa 91, gli anni in Benetton, il sorriso sghembo di Damon Hill che ricorda Adelaide 94, il disastro del 97 con Villeneuve e gli anni d'oro in Ferrari. E' tutto nuovo, di nuovo.
Perché la grandezza che Michael ha sempre avuto, quella capacità innata di sovrastare gli altri, nel documentario prende forma fuori dallo sport. Un metro e 74 centimetri, un'altezza perfetta per un pilota che ha sempre e solo puntato alla perfezione, ma una statura mediocre per un uomo così imponente.
Sembra alto due metri, Michael Schumacher, quando salta sul podio, quando con lo sguardo assassino corre verso il box di David Coulthard a Spa 98, quando abbraccia Corinna e i bambini. Un palazzo di sei piani, un marine, una statua di cemento armato. "Ogni volta che mio padre entrava in una stanza calava il silenzio" ricorda Mick, e non è difficile immaginare il perché. Era timore reverenziale, venerazione e solennità.
Era l'altezza percepita di un uomo che non era solo veloce, il più veloce, ma era soprattutto diverso. Da Lauda, da Prost, da Hakkinen, da tutti i grandi venuti prima e dopo di lui. Così diverso da Ayrton Senna, due oceani che si scontrano e che - se il destino fosse andato diversamente - avrebbero creato qualcosa di difficile anche solo da immaginare.
Schumacher non racconta niente che di Michael non sapessimo già, ma ci regala un punto di vista che ribalta la percezione bidimensionale che avevamo di lui. Michael che si sveglia senza far rumore per non disturbare la moglie addormentata, che si traveste da sposa a una festa in compagnia di Barrichello, Michael che suona la batteria con Mick in braccio e si fa trascinare da una motoslitta in mezzo alla neve.
E' Michael, non è Schumacher. Forse il documentario si sarebbe dovuto chiamare così, perché quello che ci regala, forse l'unica cosa davvero inedita che ci insegna su un pilota di cui sappiamo tutto, è che la grandezza di un campione non sta mai solo dentro a dove siamo abituati ad andarlo a cercare.
Dove è stato scorretto, antisportivo, grandioso o unico, ma pur sempre solo un pilota. La grandezza è fuori. E' nelle parole di Jean Todt che nel documentario è presentato come "amico" e non come team principal, presidente FIA, deus ex machina di una rinascita italiana. Solo amico, ciò che resta oggi e ciò che davvero conta. Perché dello Schumacher di allora ci rimane la percezione di un amore che lo ha reso il gigante della Formula 1 a cui siamo abituati a pensare. Quello con la mascella imponente, gli occhi severi, le poche parole.
"Adesso tocca a noi proteggerlo" dice Corinna, che tiene insieme i pezzi di quell'uomo immenso che Michael ancora è. Nei nostri ricordi, nei suoi successi, nel suo essere padre presente e compagno attento. Nei suoi due metri di altezza, quella con cui. chissà dove e chissà come, continua a sovrastare tutto.