“Chiamami come vuoi e io non rinnegherò quel nome”. E’ un passaggio di una vecchia canzone di Joan Baez, “Farewell Angelina”, e che racconta di un addio. Un addio nel tumulto (in quel caso il tumulto di una guerra e di un soldato che stava per partire) come quello che oggi il mondo del motorsport si trova costretto a tributare a Anthony Gobert. L’ultimo dei piloti maledetti, infatti, se ne è andato. Che stesse male, che non ci fosse già più niente da fare, l’avevamo scritto giorni fa (qui il link), ma alla morte non ci si prepara mai abbastanza. Anche perché Gobert non è partito per la guerra, ma, forse, se ne è andato dalla guerra. Quella che l’ha divorato dentro, quella che ha provato a combattere solo in pista con manate di gas a vita persa e manovre che resteranno nei racconti degli anni d’oro delle corse.
Spostare la rabbia tra i cordoli, sfogare la sofferenza sull’asfalto è bastato per molti. Non è bastato, invece, per Gobert. Che ha continuato anche fuori. Che ha tenuto fede a quel tumulto, tirandosi dietro pure giudizi che magari non meritava. O che, se anche li avesse meritati, non avrebbero dovuto andare oltre il manico assurdo che aveva in moto. Perché quella e solo quella era la parte dell’uomo che era che aveva scelto di condividere con tutti. E quella e solo quella dovrebbe essere la parte che possiamo conoscere. Sopra le moto – una su tutte quella Kawasaki verde con il 4 sul cupolino che è stampata nel ricordo di chiunque abbia amato un po’ le corse, mentre le pinze dei freni diventavano roventi come nessun altro è stato capace – dentro la vita. Con una certezza sola: non ha avuto la forza di frenare come invece sapeva frenare in pista – e questa non può essere di certo una colpa – di prendere a sportellate i demoni interiori con la stessa veemenza con cui, invece, riusciva a prenderci gli avversari.
Chi è stato è noto. Come è finito nel buio è noto altrettanto. E sappiamo pure, dopo l’annuncio del fratello della scorsa settimana, quanto poco tempo gli restasse. Ora sappiamo pure che quel tempo è finito. E a dirlo al mondo non è stato un manager, un team, uno sponsor o un marchio, quasi in una metafora di umanità potentissima che supera l’essere stato pilota. A dirlo al mondo è stata una mamma. Sua mamma, la signora Suzanne. “Mi si spezza il cuore mentre scrivo questo – si legge in un post affidato ai social - Aveva sempre un cuore gentile e si preoccupava per tutti. Purtroppo è stato vittima della dipendenza, che è profondamente radicata nelle nostre famiglie. Ha provato molte volte a migliorare, ma non ce l'ha fatta. Sono molto orgogliosa di lui e ringrazio tutte le persone buone che hanno contribuito alla sua vita".
“Le persone buone”. Come quelle che meritano d’essere citate anche dentro tanto dolore, anche davanti alla morte. “Le persone buone”, come quelle che non sanno essere abbastanza cattive da difendersi. E che magari cadono. Ricadono. E semplicemente non ce la fanno più, anche se il motto di tutta una vita – quella pubblica, però – era stato The Go Show. Anthony Gobert riposi in pace. Quella pace che, purtroppo, giudici e giudizi non troveranno mai e che invece dovrebbero imparare a frenare come frenava Gobert.