Torna la Coppa Italia, con le sue serate estive un po’ anonime, e si ha subito la sensazione che il nostro trofeo, al massimo, abbia la capacità di farla venire, la fame, non di placarla. E così Milan-Bari è stato l’aperitivo, ma la cena arriverà con il Campionato, con la Serie A che attacca sabato prossimo. Non è così per gli inglesi e per la F.A. Cup, la competizione calcistica più antica del mondo (1871). Inimitabile, se ovviamente pensiamo che sia impossibile imitarne un fascino figlio di una lunga e nobile tradizione, ma non così tanto inimitabile se è corretto ipotizzare che la nostra Federazione potrebbe serenamente trarre spunto dagli inglesi per iniettare sangue, orgoglio e garra in partite che da noi sembrano già segnate in partenza. Il Bari si fa una gitarella a Milano e via andare, tutti contenti. Senza sussulti. O “upsets”, come li chiamano gli albionici quando si ritrovano una squadra di League Two (quarta serie) che fa fuori una compagine di Premier League. L’albo d’oro della competizione, in tal senso, può darci alcune indicazioni interessanti. Nella stagione 1987/88 vinse il Wimbledon di Vinnie Jones e soci, squadra ultra-fisica e per nulla spettacolare (fu battezzata “crazy gang”) che quell’anno in finale piegò il Liverpool di Houghton, Barnes e Beardsley. Peraltro, dodici mesi prima, la Coppa era stata alzata dal Coventry City, una delle squadre più sfi*ate degli ultimi trent’anni. Per le successive due decadi nessuna traccia di veri “underdogs” al potere, ma nel 2007/08 la finale è addirittura tutta tra “underdogs”. Fra Portsmouth e Cardiff la spuntano i primi. Nel 2012/13 arriva il colpaccio per mano del leggendario Wigan di Roberto Martinez, che ora siede sulla panchina del Portogallo. Una finale già scritta, in teoria, fra questa piccola squadra specializzata in clamorose salvezze e il Manchester City di Roberto Mancini. A Wembley decide Grigg, nel primo minuto di recupero. Il Wigan vince, ma all’ottava stagione consecutiva in Premier (un autentico miracolo sportivo) retrocede. Cinque anni fa, stagione 2020/21, Il Leicester City di Rodgers sconfigge uno a zero il Chelsea di Tuchel, che quindici giorni più tardi avrebbe vinto la Champions League. E lo scorso maggio? Il Crystal Palace, squadra storicamente “allergica al silverware” batte uno a zero il City di Guardiola. A Londra c’erano tifosi ultraottantenni in lacrime perché mai, in un’intera vita da abbonati, avevano visto il Palace vincere qualcosa.

Direte voi: risultati talvolta clamorosi per una coppa avventurosa ma snobbata dalle superfavorite? No affatto, perché la finale di F.A. Cup è un evento solenne. Fatta eccezione per il periodo 2001-2006 (in cui la sede è stata Cardiff), il duello conclusivo si è sempre disputato a Londra, in uno stadio di Wembley gremito. Una vetrina, anche commerciale, potentissima. Una sorta di Superbowl inglese. Inoltre, chi la vince va dritto in Europa League. Solo la Champions League in epoca di sceicchi e nababbi ha fatto sì che a volte, complici calendari vertiginosi fitti di sfide clou, alcune grandi abbiano preferito, in coppa, schierare le seconde linee – Napoli-style, vedi la sfida dell’anno scorso contro la Lazio – per curare altre priorità. Ma in genere i match sono caldissimi e tirati, gli stadi sempre esauriti. Perché, di fatto, solo le big si battono per vincere la F.A. Cup, ma l’intera Inghilterra. La competizione è a eliminazione diretta con partita unica e con accoppiamenti casuali, senza teste di serie. Con un sorteggio puro che determina anche quale squadra giocherà fra le mura amiche. Se la partita finisce in parità, ecco il replay su campi invertiti. E se volete avere idea di quanto possa essere sconsigliabile per un cardiopatico un sorteggio di F.A. Cup vissuto in diretta, guardatevi la scena al pub di “The football factory”, film del 2004 di Nick Love tratto dall’omonimo romanzo di John King. La F.A. Cup è anche il torneo che riposa meno di tutti perché è il più partecipato. Eccola qui l’Inghilterra che scende in campo. Anche quella dei piccoli villages del nord, per intenderci. Eccola qui l’Inghilterra da cui, periodicamente, salta fuori qualche giant-killer, ossia l’orgoglioso Davide che piega il forte e ricco Golia. Ad agosto, nel turno extra-preliminare, scendono in campo squadre dilettantistiche o poco più (per dire, nelle stagioni 2008/09 e 2009/10 si iscrissero 762 formazioni, ossia chiunque in Inghilterra sapesse calciare un pallone in modo accettabile). Seguono i veri e propri preliminari, poi altri quattro turni di qualificazioni, quindi sei turni di Coppa vera più semifinali e finale. Le grandi, insomma, non toccano l’erba fino a gennaio.

Quindi, al di là della poesia, la F.A. Cup è forse un torneo per outsiders? Non proprio. Ad aver vinto più volte la competizione è stato l’Arsenal (14 titoli) e c’è da giurarci che quest’anno, con una Premier più che mai affollata di pretendenti al titolo (e quindi anche di potenziali deluse), la vincitrice sarà estratta dal mazzo delle big. Con il possibile disturbo di Brighton e Nottingham Forest. Sia chiaro, il calcio miliardario degli ultimi tre lustri di Premier ha influenzato anche la F.A Cup, rendendo l’episodica pratica del giant-killing impresa più improba di prima. Ma la formula tiene e lo spettacolo pure. Così accade che il Plymouth, terza serie, faccia fuori, davanti ai propri tifosi e ai tifosi provenienti dal Merseyside, il Liverpool che qualche mese dopo avrebbe vinto la Premier a mani basse. Accadeva lo scorso 9 febbraio. Ok, Arne Slot schierò la seconda squadra. Ok, al turno successivo il Plymouth sarebbe stato eliminato dal City (1-3), ma quel giorno Plymouth, una cittadina sempre esclusa dal grande calcio, dal calcio introdotto dallo stacchetto che recita “The champions”, assaggiò il paradiso. Sedicimila spettatori intonarono “Twist and shout” dei Beatles proprio davanti a un Liverpool che, pur con le riserve, gestì la partita con il 75% di (sterile) possesso palla. Da noi, l’anno scorso, l’impresa la fece l’Empoli che eliminò la Juventus, condannando Thiago Motta (che dopo quella disfatta restò comunque in sella) all’esonero. Ma sono eventi rari, rarissimi. Soprattutto, la Coppa Italia non vede un’intera nazione scendere in campo. E la formula favorisce sfacciatamente le grandi della Serie A. C’è ancora tempo per cambiare? C’è ancora tempo per la selvaggia avventura del tutti contro tutti?
