Dentro le macchine, la FIA, vuole altre macchine. Non piloti. Vuole animaletti cresciuti in un circo itinerante, ammaestrati fin da piccoli, pronti a rispondere "quanto in alto" ad ogni grido che dai piani superiori pronunci un autoritario "salta". Li vogliono così come appaiono in Drive To Survive, la serie Netflix responsabile di aver riportato grande il successo della Formula 1 in questi anni, riuscendo nell'impresa di rendere più che mai pop, e popolare, il motorsport.
Li vogliono divertenti, belli, pieni di storie interessanti, toste, con un passato che li leghi tra loro fin dai tempi dei kart e un presente che ce li restituisce duri in pista, fantastici fuori, pronti a fare notizia con ogni frase, ogni post social, ogni litigio e incomprensione infondata sparata a gran voce, a favore di telecamere, in momenti di tensione assoluta. Li vogliono burattini di un mondo che muove miliardi di euro ogni anno e che, proprio per questo, ha bisogno di protagonisti degni di un ruolo così fondamentale. Sono la generazione del cambiamento, di un successo che neanche la stessa Liberty Media pensava di poter portare alla Formula 1 quando acquistò il circus da Bernie Ecclestone in una fase di grande declino per la categoria, e che proprio per questo deve oggi dimostrarsi perfetta sotto la lente di ingrandimento di un pubblico grande, giovane, diverso rispetto al passato.
Così, dentro a un circo che si muove sempre più velocemente con interesse crescente da paesi discutibili in termini di diritti umani, scelte politiche e sociali, la FIA ha un nuovo problema da risolvere. Quei piloti personaggi, protagonisti davanti a tifosi e stampa, voluti e creati come attori di una serie Netflix dalla sceneggiatura predefinita, ora vogliono di dire la loro. Vogliono battersi, pretendono che quella stessa notorietà, quella voce che sanno di avere, possa essere usata per altro. Per uscire dagli autodromi, dai battibecchi tra ragazzi impegnati a correre in giro per mezzo mondo. Vogliono parlare di quello che gli sta a cuore, dei problemi dei paesi che li ospitano, delle culture diverse dalle loro.
Sono Lewis Hamilton che per primo, nel 2020, ha scelto di inginocchiarsi al grido di Black Lives Matter portando con sé più della metà della griglia della Formula 1. Sono Sebastian Vettel che nel 2021 ha rischiato una penalizzazione in Ungheria per aver indossato una maglietta a favore dei diritti LGBTQ+ al centro delle restrizioni per persone omosessuali adottate da Orbán nel paese. Sono tutti quelli che in questi anni hanno seguito il motto stesso della Formula 1, We race as One, battendosi per minoranze, ingiustizie da abbattere, problemi da sollevare davanti al pubblico, enorme, che sanno di avere a disposizione.
Sono loro quelli che oggi si trovano al centro della nuova modifica al regolamento FIA, presente nell'articolo 12.2.1.n del Codice Sportivo che entrerà in vigore con la stagione 2023, che impedisce di fatto ai piloti "la diffusione e l'esibizione di dichiarazioni o commenti politici, religiosi e personali, in particolare in violazione del principio generale di neutralità promosso dalla FIA nel quadro dei suoi statuti". Una sola eccezione lascia libertà ai piloti ed è quella che prevede che i messaggi siano stati "preventivamente approvati per iscritto dalla FIA per le gare internazionali o dagli organi nazionali competenti per le gare nazionali". In sintesi quindi i piloti non potranno parlare di nulla che non sia strettamente relativo allo sport salvo prima avere l'ok della FIA e della nazione ospitante. Risultato? Niente sarà approvato nei luoghi in cui sarebbe davvero importante parlare. Non ci sarà un casco per i diritti umani in Turchia, non si parlerà della libertà delle donne in Arabia Saudita, non si discuterà di omosessualità in Medio Oriente o in Ungheria.
Una modifica al regolamento che arriva proprio dopo il ritiro di Sebastian Vettel, il pilota più attivo in questo campo di sensibilizzazione nonché l'ormai ex presidente del comitato di rappresentanza piloti, ente che a nome dei protagonisti del circus avrebbe in qualche misura potuto provare ad opporsi alla sentenza. Senza Vettel, e con la consapevolezza di una FIA sempre più controllante, la risposta dei piloti sarà sempre più debole e il potere della Federazione sempre più forte sulle decisioni extra sportive.
Vogliono macchine, non piloti. E questo stanno cercando di ottenere. Privando gli atleti della loro libertà più grande: quella di utilizzare la loro voce per veicolare qualcosa che vada oltre il motorsport. Qualcosa che tocchi le persone, soprattutto i tifosi più giovani. Ma la libertà spaventa, terrorizza chi cerca di far girare un ingranaggio sempre più complesso. Resta però una domanda a fare da tarlo dentro alla macchina perfetta costruita passo dopo passo dalla FIA: quando i piloti saranno così come li vogliono loro, quando la nuova generazione sarà abituata a non poter parlare di niente, a rispettare il copione così com'è stato scritto perché questo è quello che gli hanno detto di fare, ci sarà ancora qualcosa che varrà la pena guardare?