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Come prima, più di prima: la Formula 1 demolisce (ancora) la MotoGP e non è solo una questione di ascolti

  • di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

26 aprile 2022

Come prima, più di prima: la Formula 1 demolisce (ancora) la MotoGP e non è solo una questione di ascolti
Gli ascolti di Imola e Portimaõ parlano chiaro, ma non è ai numeri che bisogna guardare: in Formula 1 c’era una tensione speciale prima della gara, l’idea che fosse, insomma, un momento da vivere. Sensazioni che la MotoGP, nonostante i piloti in volo sui saliscendi portoghesi, non è riuscita a trasmettere. Un brivido così al motomondiale manca da un po’ e, a meno di un miracolo, continuerà a mancare per parecchio tempo...

di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

Prima i numeri, perché c’è chi li soppesa sempre: domenica la Formula 1 a Imola ha picchiato un 32,4% di share tra gara in chiaro (3,6 milioni di spettatori) e diretta Sky (1,5 milioni), mentre la MotoGP ha chiuso con un 3% di share sia in diretta (470 mila spettatori) che in differita (640 mila). Se ci basassimo soltanto su cifre e percentuali però staremmo tutti guardando la NFL di cui vanno pazzi gli americani, che in una partita dei playoff è in grado di superare di slancio i 30 milioni di ascolti e per fortuna non è così. Lo sport non vive di numeri e la Formula 1 era più seguita della MotoGP anche ai tempi d’oro del motomondiale, il punto è un altro.

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Questa domenica, una delle dieci occasioni in cui MotoGP e Formula 1 incrociano i loro calendari, il divario tra gli eventi era soprattutto questione di spirito ed emozione. Le corse in macchina, per chi le guarda distrattamente, hanno tutti gli ingredienti per annoiare: le gare sono lunghe e spesso scandite dalle strategie del muretto, il regolamento è complesso. In MotoGP no, lì ci sono 25 uomini appesi a una moto per tre quarti d’ora d’inferno e vince chi arriva primo, senza soste e strategie. Per guidare uno di quei missili serve estro, c’è più rischio, si cade. Portimaõ dopo la curva 8 produce una rampa di lancio che andrebbe bene per un rally, rapma che i piloti affrontano senza patemi prima di spararsi a 340 chilometri orari sul rettilineo coperti solo da una tuta in pelle. Anche il racconto del motomondiale ha un ritmo più sostenuto, eppure le monoposto ci restituiscono un campionato più affascinante.

L’Enzo e Dino Ferrari di Imola, domenica pomeriggio, era il posto e il momento in cui volevi essere, un’attrazione magnetica per tutti: personaggi dal mondo dello spettacolo si sono accalcati tra i box e le tribune senza aver mai visto una gara prima, migliaia di tifosi hanno pagato (caro) un biglietto pur di vedere lo show dal vivo sotto la pioggia. La gara, poi, è stata esplosiva, con l’uscita di Carlos Sainz alla prima variante, i tifosi sospesi per i restanti 63 giri con gli occhi incollati su Charles Leclerc e l’errore del monegasco nel finale. Un grande show, gente in delirio.

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Mentre la Formula 1 grida, la MotoGP bisbiglia. Quando le moto corrono i vecchi del bar - da sempre il termometro di qualunque evento televisivo - giocano a carte dando un’occhiata distratta ogni tanto. La prima stagione senza Valentino Rossi non è noiosa, lo spettacolo tecnicamente c’è, tuttavia la gente ha perso interesse. Manca quella sensazione che ti fa dire ok, da un momento all’altro può succedere qualcosa di irripetibile. Un’idea geniale, un colpo di matto, uno scossone alla storia. Più che l’assenza del nove volte campione del mondo, a togliere quel sapore di qui ed ora alle gare di moto è un altro campionato senza padrone. Non c’è un imperatore da buttare giù dal trono o un fenomeno in ascesa, è tutto estremamente equilibrato. Oggi vince un pilota, domani chissà. In Formula 1 la storia è facile per tutti: c’è la Ferrari che può vincere il mondiale, Max Verstappen che punta a ripetersi e Lewis Hamilton così indietro da farsi doppiare. Questo è quanto. La MotoGP, in confronto, sembra il riassunto di un film affidato ad un bimbo di prima elementare, tendenzialmente incasinato e senza riferimenti chiari. Per vendere, alla MotoGP come a qualunque altro sport, servono certezze ed etichette: il fuoriclasse, il nuovo che arriva, il vecchio leone, il favorito. Se l’imprevedibile diventa una regola, l’imprevedibile ha finito di essere interessante. Ed è un peccato.

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