Ducati e Ferrari raccontano da sempre un po’ di noi. Ci giochi da bambino, le vedi di quell’insindacabile rosso e pensi che è così che debba essere un oggetto veloce. Rosso come il fuoco quando sei bambino, come il vino quando cresci. Ipnotiche, totali. Quest’anno da Borgo Panigale a Maranello hanno tinto i loro prototipi di un rosso più scuro e profondo, entrambi per riprendere quel colore con cui è iniziato tutto. Rosso Ferrari, Rosso Ducati, questi i nomi ufficiali delle due verniciature. L’ultimo mondiale per entrambe è del 2007, quindici anni fa: Casey Stoner da una parte e Kimi Raikkonen dall’altra, entrambi curiosamente refrattari all’attenzione mediatica, forse l’unico modo per sopportare il peso di quella corona. Sono legate strette assieme Ferrari e Ducati, massime rappresentanti di quella motorvalley che, a ben vedere, è un nome orribile per un posto che parla il dialetto del motore e dipinge tutto di rosso. Motorvalley va bene per vendere agli americani, ma quella è più l’officina del demonio. Metallo, rosso, cavalli che scalpitano.
Ferrari e Ducati ce lo fanno dire ogni anno, ogni anno a bassa voce: è il nostro turno, tocca a noi. Partiamo in sordina, la strada è lunghissima, il mondiale è un pezzo di carne al sangue buttato in mezzo a un canile. Prima del Qatar la Ducati era la moto da battere, forte di una Desmosedici ulteriormente evoluta e di un pilota, Francesco Bagnaia, che veniva dal dominio incontrastato di fine stagione. Altri due anni di contratto per la serenità, un compagno di squadra disposto a fare da scudiero, l’esperienza per vincere. E invece, manco a dirlo le cose sono sempre più difficili di come le racconti. Bagnaia ha sofferto fino all’arrivo in Europa e Portimaõ gli ha dato un altro schiaffo, lanciandolo dritto nella ghiaia per aver peccato di ingordigia: le gomme d’asciutto servivano per passare il turno, ma era troppo presto. Troppa smania. Ora i punti dalla testa del serpente sono 38, la strada è sempre più in salita, ci vuole passione. Nella domenica in cui Pecco è stato chiamato a soffrire, la Ferrari che partiva subito dopo doveva essere il rosso del riscatto, la cugina a cui riesce tutto un po’ meglio. E invece no, anche Imola è bagnata e bastarda. Mentre le monoposto si schierano in griglia all’Enzo e Dino Ferrari la tensione è altissima: le frecce tricolore, l’inno di Mameli e il fiume di rosso al Santerno sono tutte voci di un patriottismo che chiede a Charles Leclerc di fare la cosa giusta. Bastano due curve per ricordarsi, anche qui, che le cose non sono mai come le vuoi raccontare: Carlos Sainz esce come in qualifica, dritto nella ghiaia, Leclerc si trova a ricostruire mentre Max Verstappen si allontana. L’olandese a Imola si è preso tutto, dalla gara sprint al giro veloce. Charles aveva fame, anche lui fregato da due gocce di pioggia, anche lui come Bagnaia con troppa smania addosso.
Ducati e Ferrari sono simili anche in una domenica che impone di rimandare la festa, di ricacciare le bottiglie in frigo in attesa della prossima grande occasione. Se corri per loro devi dare di più, sopportare le aspettative e le delusioni, inghiottire l’inferno. Sei figlio di un padre padrone che dà più schiaffi che carezze perché ti premia soltanto se arrivi davanti al resto del mondo. Ci vuole passione per questa roba qui, ma la passione che trovi sui dizionari e non quella venduta dagli uffici marketing: “Sofferenza fisica o spirituale”, si legge alla prima riga, cercando la definizione. “Nel primo senso sopravvive solo con riferimento al sacrificio di Cristo e a quello dei primi martiri della fede cristiana; nel secondo si associa all'idea di una profonda e tormentosa afflizione”. Roba al limite del religioso, denti stretti e un po’ di dolore. Loro due, le rosse della velocità, ci chiedono anche la fede. Come quella in canzone lì, dritta dagli anni del liceo: bisogna credere.