Sette mondiali di Formula 1, 103 vittorie nella massima serie e 103 pole position, 183 Gran Premi disputati, 4195.5 punti ottenuti in F1. Un solo numero scritto sul petto: l'inconfondibile 44. Lewis Hamilton non è semplicemente un pilota, è il pilota più vincente della storia del suo sport, la Formula 1. E per arrivare ad ottenere quel titolo assoluto, quella coccarda impossibile anche solo da immaginare per un ex bambino dalla vita modesta e i sogni troppo grandi, Hamilton ha dovuto lavorare, perdere, soffrire e migliorare sempre.
Ha dimostrato, negli anni dei suoi più grandi successi, una fame fuori dal comune. Un desiderio che va oltre l'agonismo e la voglia di vittoria, qualcosa di assoluto e totalizzante. Si è costruito, insieme ai fiumi di ammiratori, una schiera lunghissima di nemici. Tifosi che al grido di "vince sempre lui" lo hanno accusato di aver rovinato una generazione di motorsport, come se vincere, lavorare, avere talento e dedizione, fossero i più grandi difetti di Lewis Hamilton.
Le critiche però, le accuse e l'invidia, non sono neanche paragonabili a quello che sta vivendo oggi il sette volte campione del mondo. Perché mentre fatica nelle retrovie, schiavo di una Mercedes imperfetta dopo quasi un decennio di perfezione, Hamilton è stato dimenticato. Quando si parla di lui lo si fa con tristezza e sorpresa, quando non lo si fa è perché c'è poco - o niente - da dire sulla sua gara. Il suo compagno di squadra, giovane e con tutto da dimostrare, è riuscito ad entrare nella top 5 in tutte le gare disputate quest'anno, dimostrando che un problema alla monoposto c'è, è vero, ma è meno evidente rispetto al "disastro" sostenuto da Lewis.
George Russell sta facendo tutto ciò che ci si sarebbe aspettati da lui, ridisegnando la storia di un vecchio leone che tenta di mantenere la propria posizione sul trono mentre un giovane scalpita per rubargliela. Solo che questo trono non è più di Hamilton, ma è del campione in carica Max Verstappen, che dopo un anno di guerra contro il britannico è andato ora a cercare fortuna altrove, sfidando un altro con tutto da dimostrare: Charles Leclerc. Un passaggio generazionale che domenica, a Imola, è passato attraverso un momento storico: il doppiaggio dell'olandese ai danni di Lewis, che da metà classifica non riusciva a sorpassare Pierre Gasly e avvicinarsi alla zona punti.
E' arrabbiato, Hamilton, e ha tutte le ragioni per esserlo. Perché non è la sconfitta, il vero problema. Forse neanche il non essere in grado di lottare contro chi conta, contro chi vuole vincere. Il problema adesso è il silenzio. Il passare dall'essere il pilota più chiacchierato del mondo a quello che viene doppiato dal nuovo campione in carica. E dovremmo ricordarcela tutti, la rabbia di Lewis Hamilton.
Perché è una lezione contro la nostra superbia, contro il pensiero - umanissimo - di essere insostituibili e fondamentali. Perché passare dall'essere sul tetto del mondo all'essere messo in discussione, snobbato e dimenticato, è brevissimo. Perché le critiche ci sembrano il peggiore dei mali ma il silenzio è di gran lunga una pena peggiore.
E perché non importa quanto in alto, e per quanto tempo, tu sia riuscito ad andare, la discesa fa comunque male.