La paternità è una vertigine. Cominciava così qualche giorno fa un articolo di Davide Rondoni. Parlava della storiaccia del figlio di Ignazio La Russa, ma quell’inizio – al di là della ragione e dei contenuti di quel pezzo – è finito per risuonare nella testa per tutto il giorno. E anche per quelli dopo. Soprattutto perché nelle stesse ore Valentino Rossi pubblicava un video di Giulietta su una minimoto a motore, con tanto di commento tecnico di Vale. Sì, la paternità è una vertigine. Pure se ti chiami Valentino Rossi. Pure se con la paura hai imparato a mettertici al tavolo, quasi amandola come ciò che in verità finisce sempre, o quasi sempre, per salvarti la vita. Solo che la vertigine della paternità è qualcosa che al tavolo non ci si mette. E’ senso d’onnipotenza e contestualmente anche di inconsistenza. Perché quando sei un babbo mica lo sai quello che sei. E nemmeno come si fa. Il re dell’universo e contestualmente il re degli incapaci. Anche se ti chiami Valentino Rossi. Anche se sei stato Valentino Rossi.
“Il giorno in cui ho annunciato che avrei appeso il casco al chiodo e quindi il giorno in cui ho deciso davvero che avrei smesso con le corse in moto è stato anche il giorno in cui con Francesca abbiamo saputo che saremmo diventati in tre. Davvero è stato tutto un incrocio del destino. L’ho considerato quasi un segno” – ha recentemente raccontato Valentino Rossi. Un segno che ha segnato l’ingresso dentro un’altra vita. Con lo stesso nome, con lo stesso passato (che avrebbe potuto essere pure pericoloso), ma con una qualifica in più: padre. E essere padre, come ha scritto Rondoni, è una vertigine. Una vertigine che a volte finisce pure per farti dimenticare che mentre sei padre sei ancora anche un uomo. Con le tue ambizioni, le tue individualità e, perché no, pure i tuoi egoismi. Pure se ti chiami Valentino Rossi. Lui, Valentino Rossi da Tavullia, sembrava però sapere già tutto, con quella semplicità che fa spavento e che niente c’entra con la supponenza. E l’ha detto pure subito: non correrò più in moto, diventerò padre, ma sarò ancora un pilota.
Anche essere pilota è una vertigine. Perché le emozioni della velocità sono una roba che è inutile pure provare a spiegare e la fame che ti mette l’essere un competitivo non la fai passare mai neanche se non hai più spazio per contenere altra gloria, ma quando sei stato Valentino Rossi la vertigine rischia d’essere pure contraria. Perché nella vita prima vincevi e in quella nuova non lo sai. Il 46 ha preso in braccio la sua nuova carriera, probabilmente, con lo stesso impaccio con cui ha preso in braccio per la prima volta Giulietta. Come uno che non sa. Come uno che, però, una certezza ce l’ha: non saprò farlo, ma d’amore dentro ce ne è tutto quello che posso. E pure un po’ di più.
Ha scelto un campionato che facesse per lui. Non una vetrina, non un palcoscenico nonostante sarebbe stato tutto molto più semplice e con bagni di folla compresi e nel primo giorno di prove s’è fatto pure immortalare mentre mangiava un piatto di pasta in cartone. Lui che nel paddock aveva avuto gli chef migliori. E pure una schiera di mezzi maggiordomi più o meno vestiti da servitori. Niente più di tutto quello che era stato, ma solo, appunto, la certezza che più amore di così non avrebbe potuto mettercelo.
S’è messo al volante e ha sbattuto. S’è messo al volante e ha perso. S’è messo al volante e è arrivato esimo. Proprio lui che si chiama Valentino Rossi. Poi ha cominciato a crescere. E’ arrivata qualche gioia e pure una nuova macchina. La stessa squadra ha cominciato a crederci veramente che l’operazione poteva essere anche sportiva e non solo di marketing. E lì è arrivata la prima vittoria vera: la fiducia dell’ambiente. Che è quello che serve davvero per partire, in qualunque avventura si decida di cimentarsi. E la nuova vertigine s’è fatta piacere. Sempre un pochino di più. Sempre un pochino più su. Fino a un torrido giorno di luglio a Misano quando, complice un incidente al giro 11, la BMW col 46 s’è ritrovata lassù davanti. Nel posto che è quasi sempre stato di Valentino Rossi nella sua vita di prima. Con una vertigine in meno, o comunque una vertigine diversa, e parecchi anni in più oltre al doppio delle ruote (e dei cavalli). E pure con una figlia che magari non è ancora abbastanza grande da capire cosa hai fatto e quale può essere stato il significato umano di questa torrida domenica di luglio a Misano e meno che mai chi sei stato, ma a cui hai appena mandato il messaggio d’amore più potente che esiste: solo l’esempio insegna davvero.
L’esempio di un padre e di un uomo dentro una vertigine che – anche se sembrava impossibile - adesso è doppia, quella della paternità e quella dell’essere pilota. “Scoprirai che tuo padre ti è uguale, lo vedrai un po’ folle e un po’ saggio, nello spendere sempre ugualmente la paura e il coraggio – scriveva Francesco Guccini in una canzone dedicata proprio a sua figlia – la paura e il coraggio di dire: io ho sempre tentato”. Riconoscersi per quello che si è (nel suo caso un pilota) e poi tentare sempre, provarci ancora, anche quando ci si chiama Valentino Rossi. Anche quando sei stato Valentino Rossi. Trasformando segni in disegni e dimostrando che lo spazio per un’altra vita c’è sempre. Sempre e per tutti quelli che non smetteranno mai di cercarlo. O volerlo. O ricavarlo. Comunque tentando.