Luca Lunetta, fresco maggiorenne, sembra aver trovato l’equilibrio perfetto. Posizione in sella a parte, ragiona da veterano: è alla dodicesima gara nel Motomondiale, ma si esprime come uno che ha il proprio nome iscritto nella barra di ricerca di Wikipedia da quando andavano di moda i cellulari con tastiera fisica incorporata. Al contempo, Luca si aggira per il paddock con lo stesso fascino negli occhi di un bambino al casinò. “Che figo qui”, esclama appena lo incontriamo. Ha una cadenza romana che suscita spontanea simpatia, ma non la ostenta. Ha soprattutto ragione: la sala stampa del Red Bull Ring è praticamente un cinque stelle a pensione completa. Sono le 18:30 del venerdì del Gran Premio d’Austria e Luca avanza a testa alta tra i tavoli e la moquette di questa lussuosa hall. Indossa fasciature su polso e spalla per un recente infortunio in allenamento (“Sono contentissimo di essere qui a due settimane dall’operazione, credevo fosse impensabile”), sorrisi sul volto nonostante il dolore. I passi di Luca verso la scrivania sono rapidi e felpati, simili al suo percorso professionale: vincitore del CIV Pre Moto3 a tredici anni, l’ingresso nei Talenti Azzurri della Federazione a quattordici, a sedici la prima wildcard nel mondo dei grandi, diciassette anni per laurearsi vicecampione della Junior GP. Lo chiamiamo subito predestinato? Per carità, no. Però Paolo Simoncelli deve aver visto qualcosa di particolare in Luca Lunetta per concedergli di correre con il 58 di Marco.
Luca, com’è possibile che l’amore per le moto sia nato a 5 anni mentre stavi andando a giocare a golf?
“Questa storia mi fa ridere ogni volta che ci penso. È veramente successo così, perché mio papà – appassionato di vari sport – mi aveva portato in un campo da golf all’età di cinque anni e mezzo per provare a giocare. Forse non era la stagione adatta, forse non avevo l’età, non ricordo, fatto sta che del golf non se ne fa niente, io sono felice, e sulla strada del ritorno incrociamo il minimotodromo di Torricola. Io ero già spericolato da piccolo, andavo in bici senza rotelle a due anni e mezzo. Provai la prima minimoto e fu amore a prima vista”.
Cosa ti colpì?
“Per me girare era come andare ai gonfiabili del parco giochi. Io però andavo in pista e questo mi trasmetteva un’adrenalina di cui non potevo più fare a meno, tipo montagne russe. Mi divertivo sempre di più e ogni volta che lasciavo la minimoto non vedevo l’ora di riprenderla in mano”.
Il sogno è partito da lì?
“È arrivato a mano a mano, perché io mi divertivo e continuavo a chiedere a mio padre, che ha avuto a malapena uno scooter da ragazzino, di tornare in pista. Non sapevamo come muoverci a dir la verità, però ho cominciato a vincere i primi campionati regionali, a fare conoscenze e a disputare tutta la trafila dei campionati junior nazionali. Intanto guardavo sempre la MotoGP in televisione e, ben presto, essere un pilota del Mondiale è diventato il sogno”.
Quanto è stato difficile, in questo senso, partire da Roma e non dalla Romagna?
“In realtà a Roma abbiamo trovato tutto quello che ci serviva per andare avanti. C’era Torricola, pistino di minimoto. Chiaro, in Romagna tutto era più facile, ma io e mio padre abbiamo affrontato tutto come se fosse un gioco e, una conoscenza dopo l’altra, ci siamo resi conto che stava diventando qualcosa di importante. Ci siamo sempre concentrati molto sul presente, capendo di volta in volta cosa si potesse fare per progredire”.
A proposito di step, da Le Mans in poi sei arrivato sempre in top ten. Cosa è cambiato rispetto ad inizio stagione?
“Devo ringraziare la squadra, perché ho passato tanto tempo coi ragazzi e mi sono trovato veramente bene, mi trattano alla grande e questo è un aspetto fondamentale. Io ho iniziato il Mondiale molto carico, avevo voglia di spaccare tutto, ma qui ci sono i migliori al mondo e non è facile. In realtà, più che a Le Mans, è stato nel corso dei test di Jerez che abbiamo provato a cambiare un po’ di cose sulla moto. A livello di ergonomia, in particolare, abbiamo trovato una soluzione che mi faceva stare più comodo in sella. Poi da Jerez ho fatto uno step indietro io con la testa, provando solamente a finire la gara, perché nei weekend precedenti ero sempre caduto. Ho fatto ventesimo a non so quanti secondi dal primo, e da lì abbiamo provato a mettere mattoncino su mattoncino. A Le Mans ero quasi col gruppo dei primi e in quei momenti, stando in mezzo a quelli che vanno forte, fai esperienza. Ci prendi gusto”.
Il pilota che ti ha impressionato di più in queste prime gare?
“Ad oggi vedo David Alonso come il più forte della categoria. Ti dico che lui è bravo, va molto forte, in pista fa tutto perfetto, però la mia filosofia è che tutti hanno due braccia, due gambe e una testa. Quindi se lo fa lui lo posso fare anch’io”.
Vanno tutti in bagno…
“Esatto sì, quella cosa lì (ride)”.
Ma sei della Roma o della Lazio?
“Sono romanista”
Di Giannantonio, Marini e Morbidelli sono tutti romanisti. Il paddock è giallorosso.
“Non sapevo di Luca, figo però”.
Con chi di loro ti trovi di più?
“Con Diggia ho un rapporto quasi fraterno, mi aiuta in tante cose, mi dà dei bei consigli, anche perché ci alleniamo tanti giorni della settimana insieme. Da un pilota della MotoGP come lui puoi imparare tantissime cose”.
La cosa più memorabile che ti ha detto?
“Quella che hanno tutti due braccia, due gambe e una testa me l’ha detta lui”.
Ridiamo.
Roma sud o Roma nord?
“Roma sud, sto vicino all’Eur. Come Diggia”.
Quando hai cominciato a pensare che da grande avresti gareggiato col #58 sul cupolino?
“Ero un bambino e, proprio quando iniziai a correre in moto, accadde il fatto di Marco. Vedevo il 58 ovunque, la prima minimoto che mi regalarono a Natale la chiesi col 58 sul cupolino. Ho fatto le prime wild card nel Mondiale con l’85 perché ancora non me la sentivo di mettere il 58”.
Poi è arrivato il momento di chiederlo a Paolo.
“Sì, è successo l’anno scorso proprio qui a Spielberg, quando firmammo il precontratto. Appena gliel’ho chiesto lui mi ha risposto «sì, tu lo devi usare, mi piaci come pilota, come persona, assolutamente sì». Ed è andata”.
Eri agitato?
“Molto, ho faticato a trovare il momento giusto. Però poi è stata una grande liberazione ed un modo per onorare ancora di più Marco”.
C’è una gara in particolare del Sic che ti è rimasta impressa?
“Forse la vittoria del Mondiale in 250cc a Sepang, nel 2008. Ero piccolissimo lì, ma poi crescendo vidi un sacco di repliche delle gare di Marco di quegli anni. In realtà, più di ogni altra cosa, mi è rimasta impressa la persona che era fuori dalla pista. Spontaneo, alla mano, quello che pensava diceva. Tutto ciò mi affascinava”.
La tua gara più bella?
Luca sembra guardare oltre, i suoi occhi si fanno ancora più vispi del solito.
Poi spara: “Risposta fighissima? La prossima”.
Ridiamo ancora.
Immaginavo potessi rispondere così.
Luca Lunetta, allora, si concentra.
“In realtà la più bella è stata l’ultima del Junior GP Moto3 2022. A Valencia avevo un KTM del 2018, gli altri invece – piloti come Alonso, Rueda e Farioli – avevano le moto del 2021. Feci secondo, chiudendo bene un anno difficilissimo, perché comunque in questo sport il mezzo conta e io in quella stagione arrancavo sempre. Una volta tagliato il traguardo, mi misi a piangere. È stato bellissimo”.