Aron Canet: 24 anni, una pioggia d’inchiostro sulla pelle, il talento dei migliori, la fame di un mostro. Canet ha appena siglato un contratto con Fantic per il 2025 ma non oltre, perché il sogno e l’obiettivo è quello di debuttare in MotoGP, opportunità che potrebbe essere incentivata da Liberty Media in cerca, non è un mistero, di personaggi esagerati come lui che è stato bulimico, che è interamente coperto di tatuaggi e che gli avversari vorrebbe ammazzarli. Cosa che pensano tutti ma nessuno dice. Ci mettiamo d’accordo per un’intervista nel camion del team, è il giovedì del GP d’Austria. Lui è in uno stanzino, sdraiato con la testa tra le mani della moglie che gli accarezza i capelli. Si alzano, quasi chiede scusa, parliamo un po’ del campionato: “Troppi punti tra noi e il primo”, dice a proposito del mondiale. “Ho subito cadute, lesioni e problemi di setting. Dobbiamo solo puntare a vincere tutte le gare che possiamo”. Aron parla bene l’italiano, la sensazione è che nel team gli vogliano bene. Trasmette un’insospettabile simpatia.
Partiamo dall’inizio. Da che famiglia nasci? Cosa fanno i tuoi genitori?
“Sono nato a Valencia, alla mia famiglia non piacevano le moto. Nessuno era appassionato. Però mi hanno detto che, a un anno e mezzo, mi agitavo quando davanti a casa passava uno scooter, così mi hanno regalato delle piccole moto giocattolo. Poi la moto a batteria, finché non ne ho chiesta una vera e mi hanno regalato questa minimoto, una replica Mick Doohan da tre cavalli. Lì avevo tre anni. Ne ho compiuti cinque nel periodo d’oro di Alonso, tutta la Spagna parlava della Formula 1 e così mio padre mi regalò un piccolo kart, ma quando l’ho guidato ho detto ‘babbo, questo non mi piace. Ho bisogno di due ruote’. In quel momento ha smesso di essere un hobby ed è diventato il percorso di padre e figlio che andavano alle gare col sogno di arrivare nel motomondiale”.
Mi stai dicendo che a cinque anni avevi giù deciso cosa fare della tua vita?
“Sì”.
Quand’è che hai capito di avere qualcosa in più degli altri?
“Sempre da piccolo, a otto o nove anni. Vincevo tutti i campionati in cui andavo a correre, mi veniva veramente facile. Mi ricordo un periodo, avrò avuto undici anni, in cui ho vinto tutte le gare a cui ho partecipato per un anno e mezzo. E quando all’ultima gara del 2012 ho fatto secondo perché abbiamo avuto un problema di motore ho cominciato a piangere disperato. Era questo il feeling: o vincere o niente”.
Invece come ricordi il momento in cui hai capito che c’erano altri come te?
“Penso sia successo nel 2009, ad Albacete. C’erano Manzi, Marini, Bulega, Gardner, Arenas... tanti piloti spagnoli e italiani. Lì ho capito che c’erano altri del mio stesso livello, però mi sentivo tra quelli che puntavano a diventare grandi in questo sport”.
I soldi per correre sono mai stati un problema?
“Non mi piace puntare il dito su chi corre coi soldi, anche se mio padre faceva il camionista. Alla fine o hai tanta fortuna e magari ti trovi un manager, oppure farai veramente molta fatica ad arrivare nel mondiale. Questo sport è molto caro e non ha senso pensare che arriverai senza i soldi, è quello che dico sempre ai papà dei bambini che vogliono fare questo sport. Questo non è il calcio, è caro. Certo, non come il tennis, la Formula 1 o il golf. Ma alla fine per stare ad alto livello devi allenarti e ti servono un sacco di soldi per fare le cose per bene. Io sono stato fortunato, ho iniziato ad avere un manager verso i dieci anni. In quel modo sono riuscito ad arrivare al FIM CEV e lì per fortuna mi ha preso Estrella Galicia che mi ha portato nel motomondiale. È un mondo difficile in questo senso”.
Ti sei sposato meno di un mese fa.
“Guarda, in realtà ci siamo sposati a dicembre, un mese fa abbiamo fatto la festa”.
Cosa ti ha fatto scegliere lei?
“Ci siamo conosciuti a Valencia, poi siamo andati a stare ad Andorra. Sono stato molto bene con lei, alla fine è la persona che mi ha fatto essere un po’ più professionista nel motorsport e un po’ più centrato nella vita, che è importate per uno sportivo. Quando hai vent’anni è difficile avere la testa sempre a posto, sei giovane e ti piace anche stare con gli amici, fare cose diverse. Ho imparato tanto da lei, poi è vero che le donne sono sempre un passo avanti rispetto a noi uomini, giusto?”.
Ai tempi della Moto3 sei stato molto male. Eri bulimico, ti pesavi 15-20 volte al giorno, hai litigato col team per questo. Cosa ricordi di quel periodo?
“È stato bello e difficile. Da una parte arrivavano i risultati, dall’altra avevo quella fame spaventosa. Questa cosa di pesarmi una ventina di volte al giorno la faccio ancora quando voglio togliere un chilo o un chilo e mezzo. Lei (indica la moglie, ndr) lo sa, questa di pesarmi è una cosa che un po’ mi è rimasta per arrivare al peso giusto per una gara. E poi la storia della bulimia… è vero, in Moto3 per pesare 62 o 63 chili era difficile e allora dovevo fare delle stronzate. Magari mangiavo solo anguria, oppure bevevo l’acqua frizzante per togliermi la fame. Queste erano le cose che facevo più spesso, oppure prendevo un pezzetto di cioccolato e me lo mettevo in bocca senza però mandarlo giù, solo per sentire il sapore dello zucchero. Sono cose difficili, ma quando sei uno sportivo devi avere l’ossessione della vittoria. È una cosa che ho imparato da Max Biaggi, tra gli altri”.
Oggi c’è molta sensibilizzazione sui disturbi alimentari, se ne parla spesso. Pensi che lo avresti fatto di meno?
“No, penso che lo avrei fatto di più”.
Beh, è un bel modo per spiegare l’impegno che metti in quello che fai, giusto?
“Certo, come quando ho avuto delle lesioni e sono tornato tre giorni dopo l’operazione”.
Ti sei anche fatto mozzare un dito per correre prima.
“Volevo, sì. Perché altrimenti non avrei potuto correre, poi i dottori mi hanno modificato il dito con delle operazioni e lo abbiamo abbastanza recuperato”.
Sei un pilota selvaggio, vecchio stile. Hai vissuto incidenti spaventosi. Pensi che i tuoi tifosi ti amino per questo?
“Alla fine io mi vedo un po’ diverso dagli altri in tante cose e mi rendo conto che la gente mi vede un po’ diverso. Senti, non so come dirlo senza suonare male…”.
Prova.
“Standard. Standard one. Se vai alla Formula 1 vedi Carlos Sainz, Verstappen, Perez, Gasly… sono tutti simili. Invece Hamilton non è normale, non so perché. Alla fine anche in MotoGP è così, sia dentro che fuori dalla pista. È vero che quando entro in pista ci metto tutto me stesso, e anche quando mi faccio male provo l’impossibile per tornare il prima possibile. Per la squadra, perché difendo i suoi colori, ma anche per me stesso perché io voglio vincere, non essere secondo. E questo è quello che importa per me”.
Pensi che i piloti di oggi siano un po’ finti?
“Sì. È una cosa che a me non piace del paddock. Se guardi il mio Instagram vedrai che non seguo quasi nessuno. Non ha senso, seguo solo il mio compagno di squadra. Ma perché dovrei seguirti su Instagram se voglio batterti? Non voglio essere tuo amico, basta. È così, poi siamo nel 2024 e capisco che certe cose vadano fatte, però io ho una testa un po’ diversa e in questo senso sono un po’ old school. La rivalità per me ci deve essere ed è anche quello che mi piace”.
Tu vieni qui con la testa pronta per la guerra e ti concentri su quello.
“È così, a me piace la guerra. Anche se non puoi più fare quelle cose che faceva Marco Simoncelli per esempio, o Loris Capirossi nella sua epoca, Valentino Rossi con Max Biaggi… non puoi fare quelle cose. Devi farle meno, però la guerra è bella nel motorsport, è anche questo che ci differenzia dalla Formula 1”.
In un’intervista hai raccontato che se sai di aver dato veramente tutto il risultato non conta più davvero. Come sei arrivato a questo ragionamento?
“Alla fine quando ci metti tutto, ma veramente tutto, oltre al cento per cento… in quel caso anche se non vinci e fai quinto sei felice con te stesso. Sai che non ne avevi di più e non puoi che essere felice per come hai corso, poi magari la moto non è perfetta ma non dipende da te. Il problema vero è quando fai un piccolo errore: arrivi a casa e dici cazzo, perché all’ultimo giro ho fatto così? Poi certo, se ti passano all’ultimo giro è chiaro che questa roba ti rompe i coglioni, anche se stai dando veramente il massimo. Però alla fine lo accetti più volentieri, sei felice del tuo rendimento”.
Hai un talento enorme. Per farcela però servono la fortuna, il momento giusto, un bel gruppo di persone attorno, il progetto vincente: cos’è la cosa che ti è mancata per essere oggi in MotoGP?
“Boh. Te lo sai?”.
No.
“Neanche io. Ognuno dice la sua cosa”.
E i tatuaggi? C’è questa tua storia del papillon che hai cominciato a indossare sul podio per attaccare chi ti aveva rifiutato in MotoGP.
“Ma sì, forse i tatuaggi . La gente forse pensa che sia diverso da come sono, ma quello che ti dico onestamente è che ho il talento per arrivare in MotoGP e per essere a un ottimo livello, come mi è successo quando sono arrivato in Moto3 o in Moto2. Se non arriva l’opportunità adesso della MotoGP faremo in modo che arrivi più avanti, sono ancora giovane”.
Torniamo ai tatuaggi: come hai cominciato a farli?
“Mi sono sempre piaciuti, i miei genitori li avevano e ci sono un po’ cresciuto”.
Il tuo primo?
“Uno qui, piccolo, in basso, sotto alle mutande, perché non volevo che mi scoprissero”.
E l’ultimo?
“Il culo. Il culo, è la verità. Era l’ultimo pezzo che mi mancava!”.
Ma tutto?
“Sì, sì, tutto il culo! Claro, l’interiore no!”.
Hai un idolo nello sport?
“Sì, Marco Simoncelli. Era sincero, trasparente. Non gli importava niente delle parole degli altri, andava in pista per fare la sua cosa, come piace anche a me”.
Come ti piace spendere i tuoi soldi?
“A me non piace spendere i soldi! È la verità! (Ride, ndr.) Alla fine non faccio cose incredibili, ho una macchina normale, una casa normale. È chiaro che ogni tanto mai piace fare una cena o una festa con gli amici, con mia moglie. Mi piacciono gli orologi, questo sì. Mi piacciono da quando ero bimbo, ora il più bello che ho è uno Yatch-Master in oro rosa col cinturino in caucciù”.
Cosa sogna Aron Canet?
"Di diventare campione del mondo in MotoGP".
Oggi sei qui per quello?
“Al giorno d’oggi sarebbe un errore, devi pensare più un po’ alla volta. Ora sto pensando a vincere qualche gara in Moto2. Hai un sogno finale, ma anche tanti piccoli sogni prima. Vincere un mondiale in una categoria piccola, vincere gare, giocarsi un mondiale. Vedremo se arriverò davvero a questo sogno finale, di certo mi sarò goduto il percorso”.
L’arrivo di Liberty Media per te potrebbe essere una buona notizia. Ci hai mai pensato?
“È vero che il mio manager è americano e che a loro, almeno così mi dicono, piace la mia immagine. Ma alla fine non so quanto cambierà per me. E se non sarà meglio per me lo sarà sicuramente per il motomondiale, se guardo a come è andata alla Formula 1 sono contento. Credo che un mix tra Dorna e Liberty farebbe molto bene”.
Credi in Dio?
“Sì, sì”.
Preghi mai?
“Dipende dai giorni, eh? A volte sì, altre no. Normalmente chiedo, quando sono in griglia, che nessuno si faccia male. Anche a mio nonno chiedo un aiuto per essere davanti. Però sì, se prego Dio è per chiedergli che nessuno si faccia male sul serio. Alla fine se ti rompi una gamba è un conto, ma qui ci giochiamo altro”.
Hai detto di tuo nonno: eri molto affezionato a lui?
“Sì, tanto. E prima di andare alle gare dovevo sempre dargli un abbraccio, era proprio una necessità”.
Qual è il più grande insegnamento che hai avuto dalle corse? Dal paddock, dalle gare, dalla MotoGP.
“Non ascoltare un cazzo di quello che dice la gente, ma fare quello che vuoi tu. Se ascolti tanto la gente ti faranno la testa grande e piena di roba, magari sbagliando. Invece se fai da solo e sbagli tu pazienza, ci hai provato”.
Senti, qual'è il problema dei piloti oggi?
“La rivalità. Qui fanno tutti finta di essere amici. E io no, non dico neanche ciao. Ho voglia di battere i miei rivali, non mi piace fare il gentile e poi fregarti. Io voglio matarti sempre, e basta: prima lo sai e meglio è”.
Cos’è per te la felicità?
“In che senso?”
Quand’è che sei felice?
“Dipende. Quando sono con la mia donna ad Andorra sono felice, quando sono con i miei amici a casa stando insieme sono felice. Se vinco una gara poi sono felice. Quando faccio secondo sono infelice. E quando faccio una pole sono felice a metà”.