“Ricordi, Notte: non c’è bellezza di una vittoria capace di far sopportare la bruttezza di una sconfitta”. La verosimile frase fatta pronunciare nella serie 1993 a un Silvio Berlusconi al suo massimo, eppure umiliato dalla sconfitta del Milan in finale contro il Marsiglia (la sconfitta più bruciante dell’era Berlusconi prima che arrivasse Istanbul) è perfettamente rappresentativa per spiegare cosa sarà il derby di Milano di Champions. Anzi scusate, il derby di Champions. Ché il derby è uno. Il derby di Champions è malattia. È veleno che ti intossica. Non credete a chi parla di rivincite, grandiosità, gloria. Ma quale gloria, ma cosa state dicendo? Epica sì, quello lo concediamo, epica come sanno essere le tragedie greche, epica come un poema dove l’eroe alla fine si allontana vedendo il mondo bruciare dietro di sé. Devono essere scemi gli interisti e i milanisti che hanno voluto e vogliono il derby. Non quelli che lo aspettano, perché ormai lo aspettiamo tutti, come qualcosa di ineluttabile, un Armageddon che dopo ti segnerà. Così come lo è stato quello di 20 anni fa. Ecco, devono essere scemi gli interisti e i milanisti che lo hanno voluto, o devono essere Under 30, di modo da non aver avuto più di 10 anni e dunque nessuna vera consapevolezza quando la semifinale 2003 andò in scena, lasciando dietro traumi e sofferenze. Non c’è gloria nella guerra civile - sportiva, sempre sportiva. Non c’è ritorno a casa da vincitore se casa tua è il campo di battaglia, e il campo di battaglia rimane impregnato dalle scorie dello scontro. Se pensate a quale carico di tossine si è lasciato dietro Milan-Napoli che aveva 700 chilometri di mezzo, capite allora che cos’è possibile quando ti divide solo un naviglio, e non ci vai a passeggiare ma a barricarti.
Le Sei giornate di Milano - sportive, solo sportive - dal 10 al 16 maggio vedranno una città in ebollizione come non mai, e allo stesso tempo rarefatta. Lele Adani, che era panchinaro dell’Inter in quella stagione, ricorda che la città fu in completo silenzio per una settimana. Io c’ero in quella settimana a Milano, arrivato solo per le partite pur non vivendoci, e non era proprio così. Anzi, si può ammettere che fosse silenzio. Ma era solo apparenza. La città era satura di tutto, talmente piena da essere ermeticamente riempita di emozione in ogni angolo. Milano non era silenziosa. Milano era sopraffatta. Il silenzio può essere pace. Quello no: era alta tensione costante. Ecco cos’era Milano: come quando in montagna, immerso nell’armonia, ti avvicini a un cavo dell’alta tensione. Basta un attimo a pochi centimetri per essere folgorati. E attorno, è tutto così rarefatto, che nell’aria puoi sentire solo il rumore totalizzante dell’elettricità del cavo che riempie di pericolo quel silenzio che sembrava pace. Ecco, questo è il derby di Champions. Un cavo ad alta tensione che sottenderà la città di Milano e il cui rumore sordo darà la sensazione di essere costantemente a un passo dall’essere folgorati. Solo un pazzo o un incosciente può volere questo rischio. Gli interisti dicono: è per la rivincita. Ma quale rivincita, ma che dite stolti? Non vi è bastato perderne due (mettiamoci anche il grottesco del 2005), volete pure perderne un terzo, che del primo per smaltirne le scorie avete dovuto fare un Triplete, opzione che questa volta non è nemmeno lecito sognare né a breve né a medio termine. I milanisti dicono: succede solo a chi ci crede. Ma a credere cosa, gaglioffi, ma non vi rendete conto che non c’è la gloria ad attendere a Istanbul, ma solo il rischio di restituire indietro quella immortale del derby che sembrava conquistato con i due del 2003 e del 2005. E soprattutto, entrambi, come non vi rendete conto che questa volta sarebbe definitivo, senza domani? E solo la morte non ha domani, e allora a che prezzo questo, se non una sofferenza indicibile?
Perché nel 2003, come nel 2005, con quegli squadroni in campo, con quei campioni che arrivavano senza sosta, con quelle possibilità economiche illimitate alle spalle, si aveva la speranza che se non fosse andata bene in quell’anno, sarebbe stato ancora possibile l’anno dopo o quello ancora. E con questo principio, il Milan ha vinto i due derby di Champions e due Coppe dei Campioni, e l’Inter un’altra Coppa dei Campioni ma incastonandola nell’annata perfetta che nessuno mai aveva fatto o avrebbe ripetuto. Quella volta era “prima o poi ci rincontreremo, o vinceremo”. Stavolta è definitiva. È ora e per sempre. Perché Inter e Milan sono in semifinale per grazia ricevuta, per una serie di miracoli avvenuti in serie, per delle coincidenze che non si ripeteranno più, non a breve, non con queste rose, non con queste società, non con questi grandi avversari europei che torneranno più forti e più incazzati. Questa volta il derby è tanto casuale quanto definitivo. E ognuno ha bisogno che la propria nemesi rimanga in vita per continuare a prosperare. Terminare definitivamente la nemesi è terminare sé stessi. In definitiva, sentite questa e tenetela a mente. Paolo Maldini e Javier Zanetti sommano assieme circa 2mila partite disputate tra i professionisti. Qualcuna ne hanno vista. Beh. Interrogati in merito, entrambi, senza mettersi d’accordo, hanno detto egualmente che il clima più incredibile che hanno mai vissuto è stato a San Siro nella semifinale di ritorno. Io c’ero. E non sono nessuno. Ma pure io, nel mio piccolo mondo moderno, qualcuna ne ho vista: 6 Mondiali, 4 Europei, 3 Olimpiadi, 2 Copa America. Di tutti i tornei calcistici la finale, tranne una. Più 6 finali di Champions. E mai lo stadio ha tremato come San Siro quella sera, come in quegli ultimi 10 minuti.
Io me li ricordo quegli ultimi 10 minuti. Gli occhi attorno di interisti e milanisti, ragazzi, vecchi, donne. La sensazione di essere portati via. Sentire sotto il seggiolino come se il gigante eterno di San Siro si fosse svegliato dal sonno millenario, come se stesse scrollando da terra i piedi delle sue fondamenta per alzarsi sulle punte e sollevare gli 80mila dentro. Forse non avete capito che in questo incontro non si proverà ad abbattersi l’un l’altro per vincere. La vittoria non è nulla. L’unica cosa che conta è evitare di perdere. La paura di perdere è quel cavo ad alta tensione a un centimetro che è la folgorazione definitiva. Ma come nella notte della semifinale di ritorno del 2003, dopo, tutti, vincitori e vinti, camminando per le strade di Milano, non saranno che reduci.