Tale è stato il suo successo, e il suo portato simbolico nell’immaginario collettivo, che persino la Treccani le ha dedicato una voce, aspetto piuttosto raro per quello che, alla fine, è un brand, un nome commerciale. E, allora, eccola qui, direttamente dalla versione online dell’enciclopedia: “Agenda-libro pubblicata ogni anno dal 1978, ideata da Michele Mozzati e Gino Vignali (meglio conosciuti come Gino & Michele). L’Agenda, detta anche Smemo, pubblica tra le sue pagine articoli, canzoni, opinioni, vignette e poesie, spesso a sfondo comico-satirico, e annovera tra i suoi collaboratori nomi come quelli di F. Fellini, R. Benigni, L. Dalla e Jovanotti”. Voce didascalica, come si conviene a un’enciclopedia, e in effetti la Smemoranda – perché è di lei che parliamo – quello è, da anni e ancora oggi, sebbene il gruppo a cui fa capo, Smemoranda group s.p.a. (tra i cui soci c’è anche Massimo Moratti), negli ultimi anni se la stia passando piuttosto male a causa di difficoltà economiche che l’hanno portato dall’inizio della pandemia in avanti a ridurre significativamente il personale tra prepensionamenti e licenziamenti, chiedere la cassa integrazione, cedere un marchio storico come Zelig a RTI del gruppo Mediaset ed essere ammesso nel dicembre 2022, insieme alle sue controllate, alla procedura di concordato preventivo con riserva dal Tribunale di Milano.
Tempi duri, perché evidentemente “non c’è niente che sia per sempre”, citazione di un vecchio pezzo degli Afterhours che chissà quanti adolescenti o giovani adulti avranno scritto tra le pagine a quadretti della Smemo nel corso degli anni, in quello che era un rito di un’età di passaggio nella quale la Smemoranda era un cult come ciò che vi si trovava pubblicato dai redattori e vergato dagli studenti in un trionfo di citazionismo che andava da Jim Morrison ai Take That, “passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano e arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano”. Insomma, quelle cose lì, di banco in banco, un social di carta prima dei social del web. Quarantacinque edizioni con l’ultima in commercio, nata nel 1979 e diventata un cult editoriale e culturale negli anni Novanta (1.300.000 il massimo traguardo annuale di Smemo vendute, tra le versioni dell’agenda a 12 mesi e quelle scolastiche, che di mesi ne contavano 16), al punto che si calcola che abbiano utilizzato la Smemoranda circa 25 milioni di italiani. Design minimal nella copertina, con il colore che cambiava anno dopo anno e la mela che restava a caratterizzarne il brand – già, quando pochi in Italia conoscevano la mela di Apple, quella della Smemoranda era inconfondibile – e tanto spazio, nelle pagine bianche a quadretti, per scrivere, attaccare, strappare, colorare, lasciare insomma qualche traccia che si andava ad accompagnare a quelle di personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura che iniziavano a prendere piede e trovavano anche nella popolarità della Smemo un clamoroso trampolino di lancio.
Claudio Bisio, Paolo Rossi, Ligabue, Antonio Albanese, Aldo, Giovanni e Giacomo, Gabriele Salvatores e chissà quanti altri: c’erano tutti, e se è vero che nessuno dei tanti le cui battute o vignette finivano (e finiscono tuttora) sulla Smemoranda deve il successo al diario, tutti si sono giovati della presenza su pagine che finivano nelle mani di centinaia di migliaia di ragazzini che sarebbero diventati, di lì a poco, consumatori di spettacoli, cinema, concerti. “Un po’ agenda, un po’ libro e un po’ diario (e anche un po’ recinto per i cavalli)”, come da spot di Gene Gnocchi per l’edizione del 1990-91, quella rossa, Smemoranda è stata definita un “diario di sinistra”, e in parte lo è anche stato considerando i valori ai quali il marchio si è sempre associato, dall’antirazzismo alla difesa dell’ambiente, passando per la storica collaborazione con Emergency. Da alcune settimane Giochi Preziosi ha siglato con la holding della Smemo un contratto di licenza per la realizzazione, la produzione e la commercializzazione dei prodotti a marchio Smemoranda, che non rischiano di scomparire. Ma una parte della storia sì. Non si esce vivi dagli anni Novanta.